
A Palazzo da Mosto dal 7 dicembre la mostra di Davide Benati: "Ho messo insieme le ’dimenticanze’"
Esaudendo una ricerca artistica costante, Davide Benati (Reggio Emilia, 1949) continua a esplorare, oggi, il linguaggio dell’arte con rinnovato slancio e ne darà testimonianza nella mostra ‘Encantadas’ a Palazzo da Mosto, dal 7 dicembre 2024 al 2 marzo 2025, che accoglie una selezione di opere storiche e numerosi inediti. Lo abbiamo incontrato.
Benati, che cosa rappresenta ‘Encantadas’, promossa dalla Fondazione Palazzo Magnani, a questo punto della sua carriera e della sua vita?
"Quando me l’hanno proposta, ho immaginato subito che non dovesse essere una retrospettiva, scandita per tempi. Ho invece voluto scegliere opere inedite per il pubblico o esposte tanti anni fa in gallerie o musei e poi più viste. Dunque ho messo insieme opere che avessero costituito dei precedenti".
Che cosa intende?
"Io sono uno che lavora tutti i giorni. Ho tempi tecnici, in accordo con spazi espositivi nei quali sarà un domani allestita una mia personale, che inizio a preparare. Capita però, dedicandosi a un progetto, che esca qualcosa di inatteso, di nuovo, di non previsto. E allora persino certe opere recenti improvvisamente sembrano invecchiare e io sono spinto verso una novità, da un punto di vista linguistico, che mi induce a studiarla, capirla. Ecco, molte delle opere che esporrò a Palazzo da Mosto fanno parte di queste ‘dimenticanze’. Per esempio, ho chiesto al Museo del Novecento di Milano un’opera che mi è molto cara, ‘Avvoltoio degli Agnelli’".
Che ricordo le affiora?
"Venne esposta al Pac, Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, nel 1985, il giorno della grande nevicata. Era all’interno di una mostra collettiva di giovani dal titolo ‘Nuovi Argomenti’, a cura di Flaminio Gualdoni, e tutti pensammo preoccupatissimi "non verrà nessuno". Ma nel pomeriggio smise di nevicare dopo che per le strade si erano accumulati 70 cm di neve e probabilmente proprio per questo silenzio magico che aveva coperto Milano, quella sera la gente uscì e il padiglione si gremì di persone. Tutt’intorno era gioco e pallate di neve. Poi quell’opera costituiva un consolidamento delle mie scoperte sul doppio, del mio lavoro sui due grandi dittici che esposi alla Biennale di Venezia, ‘Doppio Sogno’ e ‘Baja California’. E c’è il discorso dello spazio".
Che luogo è Palazzo da Mosto?
"Magnifico, ma complesso nell’approccio espositivo. Costringe l’artista a giocare con quanto gli spazi gli suggeriscono o lo condizionano, nella scelta delle opere".
Che cosa è cambiato dello spirito con cui ha cominciato rispetto a ora?
"Si hanno strane idee da ragazzi. Papà mi diceva ’è un mestiere da poveri’, perché il pensiero va all’arte dell’Ottocento, sempre. Accanto a quella magnificenza, sia detto però che c’è anche molta retorica. In realtà è un lavoro che comincia tutte le mattine. Una prima consapevolezza la ebbi nel ‘71, all’epoca della tesi di Storia dell’Arte con prof Guido Ballo. Scelsi la Pop Art inglese di Peter Blake, Richard Hamilton, David Hockney. Andai a Zurigo dove intervistai Peter Phillips: 32 anni, studio magnifico, attrezzature sconosciute, vestito di serpente, sembrava un chitarrista dei Rolling Stones. Sentì una vicinanza... Che distanza rispetto a Brera e alla riverenza nei confronti dei suoi maestri. Cominciai a sognare".
Sogni che poggiavano su una base concreta?
"Ebbi la fortuna di ottenere un incarico al liceo artistico di Brera, nel ‘74, quindi sì. Potevo stare a Milano e gestire il mio percorso nell’arte senza legarlo subito all’idea di mercato, che era il rischio insito nel rapporto con una galleria. Questa professione ha quattro protagonisti: l’artista, il gallerista o mercante, figure univoche o separate, il collezionista che garantisce la sopravvivenza e il critico d’arte. Ora ci sono i curatori. Dei manager. Un tempo accadeva che un artista, Modigliani, ritraesse un amico poeta e mercante, Zborowski; a Parigi era Baudelaire a recensire gli Impressionisti. Io ho avuto le parole di Tabucchi, Celati, Ghirri. Si incontrano galleristi molto vicini culturalmente agli artisti, e sono quelli che non diventano ricchi. Però hanno intuizioni che i mercanti non hanno".
’La presenza dell’artista è tanto più forte quanto più è mascherata dall’apparente distacco’ - Walter Guadagnini. Che ne pensa?
"Walter sa cosa dice, mi conosce, vero è però che il mio lavoro sembra molto sulla superficie. In realtà c’è un controllo apparentemente freddo perché tutto è disteso con un criterio, che tiene conto di questa sovrapposizione continua, controllata delle forme. Che sembrano della natura, ma io le prosciugo. Il criterio col quale ho cominciato è quello degli erbari. Non la natura, ma il suo ricordo. Non c’è emozione diretta, ma depositata nel tempo".
La scelta del trittico è essa stessa una continuità di ispirazione oppure possiede un altro significato?
"In realtà nasce nel momento in cui ho deciso che un’immagine possa avere più di una lettura. Picasso quando inventa il cubismo si pone il problema di avere nello stesso spazio molteplici angolazioni di sguardo. Io ho cercato qualcosa di più teatrale. Non a caso li ho intitolati ‘Conversazioni’. Sta all’osservatore giocare con questi personaggi".