Bologna, 2 luglio 2013 - "Sono innocente, non l’ho uccisa io. Sfido, anzi invito, la polizia scientifica a cercare le impronte sul freezer in cui era nascosta la povera Silvia. Quel freezer non l’ho mai visto né toccato, quindi le impronte che eventualmente troveranno non saranno le mie, ma quelle del vero assassino. Io so anche chi potrebbe essere. Silvia intratteneva un’amicizia pericolosa, bisogna indagare sulle persone con cui Silvia era in contatto su internet. E bisogna far presto, perché c’è un pericoloso assassino in libertà".

Ecco la ‘verità’ di Giulio Caria, artigiano edile di 34 anni, in carcere a Sassari con l’accusa di aver ammazzato la compagna Silvia Caramazza, commercialista di 39 il cui corpo è stato trovato giovedì scorso dalla polizia avvolto in un sacco nero nel congelatore di casa, in viale Aldini 28.


Caria ieri ha incontrato per tre ore il difensore di fiducia, l’avvocato bolognese Gennaro Lupo, cui ha affidato la diffusione delle sue parole. Oggi si svolgerà l’udienza di convalida del fermo, eseguito sabato quando il giovane è stato catturato mentre tentava di nascondersi nella macchia mediterranea a Padru, cittadina non lontana dal paese natale, Berchidda, in provincia di Olbia-Tempio Pausania. Caria non si sottoporrà all’interrogatorio, ma farà alcune dichiarazioni spontanee. "Bisogna proseguire le indagini in un’altra direzione — dice l’artigiano —, perché io stesso ho visto i messaggi minacciosi ricevuti da Silvia. Erano di una persona tornata dal passato, che lei conosceva e la perseguitava. La polizia guardi le mail, Facebook, e tracci le telefonate. È tutto lì".


L’uomo respinge le accuse che la Squadra mobile e il pm Maria Gabriella Tavano gli rivolgono: omicidio volontario e occultamento di cadavere. "Io ho visto Silvia l’ultima volta il 16 giugno, quando l’ho accompagnata in stazione a Bologna perché mi aveva detto che sarebbe andata a Canicattì da una parente — continua —. Forse non voleva andare in Sicilia in realtà, ma doveva incontrare la persona che poi l’ha uccisa. Io dopo sono andato a Sestola per affittare una casa per l’estate e sono rimasto lì alcuni giorni. Silvia non mi rispondeva al telefono, ma non mi sono preoccupato perché capitava che lei facesse così. Purtroppo era in cura al servizio psichiatrico e a volte si isolava".


La polizia l’ha rintracciato il 25 giugno a Sestola e l’ha sentito per ore. Un testimone l’ha visto il 22 nel cortile condominiale con due sacchi neri in mano, un altro ha visto il 25 la Yaris di Silvia, che usava Caria, sempre in cortile con le quattro frecce attive e le luci accese in casa, che filtravano dalle tapparelle abbassate.

"Il 22 sono in effetti andato in viale Aldini — spiega Caria —, ma non sono entrato in casa. Non sono più entrato dal 16. Sono andato in cantina, dove tenevo il mio materiale edile e i sacchi contenevano proprio quello. Quanto alle tapparelle e alla luce, io non c’entro. Così come per il congelatore, chiedo alla polizia di contattare la nostra domestica. Io e Silvia non avevamo il freezer e tenevamo sempre le tapparelle alzate".

E la fuga in Sardegna? "Ma non sono fuggito — aggiunge —, ho preso il traghetto come sempre. Dovevo raggiungere l’isola per organizzare le nozze fra me e Silvia, in programma il 20 luglio. Mentre ero qui ho visto sui giornali che Silvia era stata uccisa e io ero accusato del delitto. Sono rimasto sconvolto e mi sono spaventato, per questo sono fuggito vedendo lo spiegamento di forze che mi cercavano". Per l’accusa, Caria ha ucciso Silvia perché lei voleva lasciarlo in quanto lui era possessivo, geloso, ossessionante. "Non è vero, io l’aiutavo a uscire dalla dipendenza dai farmaci. Ci volevamo bene e dovevamo sposarci", conclude.

Gilberto Dondi

 

 

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