Ospedale Maggiore Bologna: viaggio nel reparto Covid."Non siamo eroi"

Una mattina in corsia tra i sanitari della Medicina: "Abbiamo visto gente morire e tenuto strette le loro mani come figli"

Bologna, reparto Covid dell'ospedale Maggiore (FotoSchicchi)

Bologna, reparto Covid dell'ospedale Maggiore (FotoSchicchi)

Bologna, 20 novembre 2020 - Ricordate il Milan di Sacchi? Il grande Milan degli Invincibili? "Ecco, – attacca Mauro Silingardi, direttore della Medicina interna del Maggiore convertita in Degenza ordinaria reparto Covid (video) – noi siamo come Rijkaard e Ancelotti, non i Van Basten. Uomini di centrocampo. Se in quel Milan sbagliava Van Basten, in attacco segnava Gullit. Ma se sbagliava il centrocampo, il Milan perdeva". Qui non siamo alla Scala del calcio o al Santiago Bernabeu, bensì in trincea. Non si gioca al calcio, non si vincono scudetti nè la vecchia Coppa dei Campioni, ma si salvano vite. Vite umane e si combatte contro quel "virus satanico" chiamato SARS-CoV-2. Benvenuti nel cuore dell’ospedale Maggiore, ai piani 9 e 11 che in tempi normali si chiamerebbero semplicemente di Medicina. Ora reparti Covid e punto. Un cambio repentino di abito dalla sera alla mattina, "nel giro di 4-5 ore". Da qui, "dal centrocampo", passano tutti: i pazienti dimessi dalle terapie intensive e quelli che arrivano dal pronto soccorso. E il ruolo fondamentale dell’internista, "spesso bistrattato", è rimetterti in piedi e mandarti a casa. E dici poco... Tutti i giorni dalle Intensive arrivano 2/3 pazienti a fronte di altrettante dimissioni. Un ciclo continuo. Altro dato: a ottobre, dei 167 ricoverati, 21 hanno traslocato in rianimazione.

Trincea. Nove e 11, dicevamo. Qui, ieri, abbiamo vissuto un’intera mattina tra camici e pazienti. Due piani: 36 e 32 posti letto rispettivamente, sold out. "Anche se – lo dice quasi sussurrando Clara Cesari, responsabile Medicina B e semintensiva all’undicesimo – negli ultimi tre giorni la sensazione è che la pressione sia leggermente diminuita". Tradotto: meno ricoveri e una curva (dei contagi) che parrebbe tenere la testa verso il basso. Lungo il corridoio dei due reparti c’è una linea giallo e nera (o bianco e rossa) che delimita rigorosamente la corsia pulita da quella cosiddetta sporca: ’attendi qui’. Quest’ultima, un metro di larghezza, sfocia direttamente nelle stanze dei pazienti al cui ingresso, a terra, è sempre presente un tappeto ubriaco fradicio di igienizzante. Serve per scarpe e zoccoli dei sanitari che varcheranno la soglia.

"Il lavoro di medici e infermieri – prosegue Stefania Zaccaroni, responsabile Medicina perichirurgica, ora Covid IX piano – è fatto sempre in coppia. Uno resta nella parte pulita, l’altro, con tuta, mascherina, guanti e quant’altro, nella sporca a contatto con il paziente". Ogni giornata inizia con la visita dove il medico (o l’infermiere) da dentro la stanza veicola le informazioni al collega fuori sulle condizioni di salute del ’residente’. Che poi saranno comunicate anche ai familiari. "Qui inizia la seconda parte del lavoro – spiega Francesco Sapuppo, coordinatore infermieristico del nono –, con le telefonate ai parenti". Non solo dei sanitari, ma direttamente dagli ammalati". Con i telefoni e gli iPad che arrivano in una busta di cellophane, tolta solamente una volta uscita dalla zona sporca.

Fine vita. Si sorride in corsia. Ci si racconta la vita fuori, o almeno gli spezzoni che restano. Perché i turni sono anche di 12-13 ore. Come quelli di Silvia Lo Mele, coordinatore infermieristico all’11: "Ogni giorno ringrazio i colleghi per quello che fanno. Mai nessuno si è tirato indietro". Nonostante la paura del contagio ("molti si sono ammalati, anche noi siamo essere umani"), nonostante la difficoltà nel lavorare ore in quegli scafandri che ti fanno sudare pure d’inverno e non ti permettono nemmeno il lusso di andare al bagno. Poi c’è il dolore per chi non ce la fa ed è costretto a morire solo, senza un proprio caro a sorreggerti. Così è successo che una donna di 89 anni, alcuni giorni fa, abbia stretto la mano di un’infermiera nell’ultima sua mezz’ora di vita; o un uomo di 48 anni tetraplegico sia riuscito a guardare moglie e figlio sullo schermo dello smartphone tenuto da una Oss prima di chiudere gli occhi per sempre.

"Noi – continua Silvia visibilmente commossa – siamo lì, accanto a loro". Non esiste una ricetta uguale per tutti ma anche far sentire "la nostra presenza attraverso un guanto, diventa fondamentale". I ricordi fioccano, il cuore di Silvia e degli altri angeli che si disegnano gli smail sulle tute azzurre, non smettono di sgorgare lacrime e mai, forse, smetteranno. "Abbiamo avuto marito e moglie ricoverati, entrambi erano in terapia intensiva, lui poi è deceduto. Quando la donna è stata trasferita da noi, l’abbiamo seguita anche dal punto di vista emotivo. Non è stato facile".

La partita di tutti. Perché il Covid ha trasformato un sanitario, volenti o nolenti, anche in uno psicologo, in un fratello, in un genitore di un paziente fino a quel momento mai visto prima. "Ma non ci sono solo i fatti brutti – riprende il direttore Silingardi –, le cose che ci riempiono il cuore sono i sorrisi e il grazie di chi può tornare a casa. E a noi basta questo". Scusate, ma quegli eroi della prima ondata perché per l’opinione pubblica ora non lo sarebbero più? "Eroi non lo siamo mai stati, semplicemente siamo sempre gli stessi". Gente che arriva in ospedale presto la mattina mettendo sul piatto salute e vita privata. E così sia. "Ora speriamo nel vaccino – chiude la dottoressa Cesari –, anche se non sarà la panacea. Ma aiuterà a non far circolare il virus". Un virus che, aggiunge Silingardi, "non cammina e non vola", ma siamo noi, con i nostri comportamenti, a veicolarlo. "Questa non è una partita giocata solo dal personale sanitario. Ognuno faccia la propria parte". Il centrocampo degli Invincibili la sta facendo alla perfezione. Ognuno di noi invece?

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