Strage, il giallo dell’archivio "da far sparire"

Le contraddizioni di Giancarlo Di Nunzio, nipote del cambiavalute di Gelli: "Nessun nascondiglio". I giri di denaro dai conti in Svizzera

Migration

di Nicola Bianchi

Tre ore di domande (mirate) e risposte (alcune assurde e poco credibili). Come quella data dal teste sui 240mila dollari accreditati sul suo conto in Svizzera da Marco Ceruti: "Da chi?". Contraddetto da atti e da sue passate testimonianze, ripreso da magistrati e avvocati (tutti), alla fine pure ’ammonito’ dal presidente dell’Assise che sta processando i mandanti (morti) della strage alla stazione del 1980 (con Paolo Bellini, concorso; Piergiorgio Segatel, depistaggio; Domenico Catracchia, falso). "Perché – ha tuonato il giudice Francesco Maria Caruso – se nega quanto ha dichiarato in precedenza, la sua deposizione diventa inattendibile".

I soldi. Era il giorno di Giancarlo Di Nunzio, braccio destro e nipote di Giorgio di Nunzio (morto il 24 ottobre 1981), il cambiavalute e mediatore d’affari che secondo la Procura generale fu il primo beneficiario dei soldi destinati a finanziare la strage. Appunto quei 240mila dollari – dei 5 milioni distratti da Licio Gelli dal crac Ambrosiano, uno poi affidato ai Nar per la bomba – accreditati il 3 settembre 1980 sul conto della Tdb di Ginevra, di cui era cointestatario anche Giancarlo. "Denaro – ha ribadito il capitano della Finanza, Cataldo Sgarangella – uscito dal conto Tortuga", formalmente intestato a Marco Ceruti, factotum dell’ex capo della P2. "Ritengo che quei soldi – spiega Di Nunzio, iscritto alla massoneria "per 4-5 anni" e titolare di una società con utenza riservata "per non comparire negli elenchi telefonici" – servissero da sostegno al Banco Ambrosiano. Ceruti? Ne ho letto solo sui giornali. L’unica volta che lo vidi è stato da voi al confronto". Nel 2018, davanti ai magistrati Alberto Candi, Nicola Proto e Umberto Palma. "Ma come è possibile – ha chiosato quest’ultimo – che uno mette così tanti soldi sul suo conto e lei non sa nemmeno chi sia?". Nulla. Di stranezze in stranezze. Come quella dei 484mila dollari fatti rientrare da Di Nunzio in Italia dalla Svizzera tra l’82 e l’84, o i 190 milioni di lire che avrebbe donato in contanti o in assegni al cugino Roberto, come riferì proprio quest’ultimo due udienze fa. "Totalmente falso", la replica di Giancarlo.

L’ufficio archivio. Il quale, con un reddito complessivo annuo assieme alla moglie di circa 30 milioni di lire, nel 1983 comprò un attico ai Parioli versandone ben 270. Senza mutui. E come? "Grazie agli aiuti delle nostre famiglie". Sempre in contrasto con il cugino, il teste ha negato poi che nel suo ufficio di via Bruxelles a Roma, usato anche dallo zio, ci fosse un archivio segreto di Giorgio Di Nunzio con documenti scottanti e da "fare sparire". Atti legati alla strage? Appunti con giri di denaro di Gelli, del suo braccio destro Umberto Ortolani, dell’ex prefetto del Viminale Federico Umberto D’Amato, o del direttore del ’Borghese’ Mario Tedeschi, i presunti mandanti dell’orrore? Atti come il ’documento Bologna’ con nomi e codici? "Non c’era nessun archivio, mio cugino fa solo confusione. In via Bruxelles c’erano solo i documenti trovati nella cassaforte di casa mia". Carte, scoperte a Roma dalla Finanza nel 2018, sulla loggia massonica (i cui nomi "probabilmente andavano tutelati"), oltre a un dettagliato report sul faccendiere Francesco Pazienza ("non ricordo se lo feci io") con passaggi sulla sentenza di condanna per depistaggio nella strage. Motivo? "Lo facevo anche con altri".

L’amico Tedeschi. Pazienza che Di Nunzio incontrò due volte: la prima tra fine ’80-inizio ’81, "perché a mio zio colpì molto il fatto che accompagnò Flaminio Piccoli (segretario Dc, ndr) in America". La seconda "a casa di Tedeschi, dopo la morte di mio zio". Tedeschi, amico dei Di Nunzio, "mi parlava di continuo dei rapporti con Piccoli e Andreotti per ottenere sponsorizzazioni per il giornale". Di Nunzio, infine, ha negato che il parente conoscesse e frequentasse Umberto D’Amato.

La scalata. In mattinata è stata sentita anche Melania Rizzoli, vedova di Angelo Rizzoli e attuale assessore della Lombardia. La sua testimonianza ha riguardato la scalata al Corriere della sera di fine anni ’70, il ruolo del Banco Ambrosiano, i rapporti tra il marito e Francesco Cossiga, quelli con Roberto Calvi, infine l’incontro tra Rizzoli, Pazienza e D’Amato. "Mio marito subì sei processi, fu assolto da tutti. Si sentiva derubato, vittima di qualcuno di più grande di lui. Cosa che gli riconosceva anche il presidente Cossiga". Domani di nuovo in aula, tra i testi Gilberto Cavallini, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage, il quale ha già fatto sapere che si avvarrà della facoltà di non rispondere. Mentre la Corte deciderà se sentire nel corso del processo Francesco Pazienza, come richiesto dallo stesso attraverso il suo legale.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro