Politica di potenza e business

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Emanuele

Chesi

Quando un’azienda, un bar, un negozio passano di mano e i nuovi proprietari hanno gli occhi di taglio orientale, dalle nostre parti si dice "l’hanno comprata i cinesi". Come se dietro quell’affare (nel senso di business) si muovesse un’unica entità indistinta ma dotata di un fine e di un principio uniforme. Oddio, in certe mastodontiche operazioni finanziarie, economiche e politiche che si svolgono nel cuore dell’Africa o sui mercati dell’Asia centrale, è effettivamente così. La Cina persegue una politica di potenza, com’è normale che sia per una dittatura (sia pure con un’ideologia ormai scolorita), con tutte le armi a sua disposizione. C’è da averne paura? In certa misura sì. L’esempio di Hong Kong dovrebbe bastare a illuminare le menti più accondiscenti: non si può svendere la democrazia per puro interesse economico.

Poi, tornando ai nostri affari quotidiani, se un’importante azienda (ma certo non strategica) o un bar di periferia cambiano proprietario, bisogna resistere alla tentazione di gridare alla colonizzazione. Anzi, se soldi freschi (purché leciti e puliti) arrivano e imprenditori sani creano lavoro e nuove opportunità, perché stracciarsi le vesti? Siamo giustamente orgogliosi quando le nostre aziende vanno all’estero, si espandono e conquistano posti d’eccellenza. Dovremmo perciò accettare anche la reciprocità.

E a un livello più alto, la globalizzazione del mercato e l’interdipendenza dei paesi sono il migliore argine alle tentazioni egemoniche di qualcuno.