Dinastia di fabbri dal 1853. “Vengono dalla Polonia per imparare il lavoro, nessuno vuole farlo"

Famiglia gestisce un’officina da generazioni: "Trovare manodopera? Difficoltà assoluta, i ragazzi italiani preferiscono studiare. Magari fanno bene"

Gianni Padovani con il padre Sergio durante una dimostrazione del mestiere di fabbro

Gianni Padovani con il padre Sergio durante una dimostrazione del mestiere di fabbro

Ferrara, 7 aprile 2024 – Il lavoro lo mastica da quando aveva 14 anni, ancora ragazzino, a sbattere quel martello sull’incudine. "Facevamo anche i ferri di cavallo", racconta Gianni Padovani, alle spalle quattro generazioni di fabbri. La prima fucina nel 1853. E proprio perché di lavoro se ne intende non usa mezzi termini. "Trovare qualcuno che voglia fare questo mestiere? Ci scontriamo con una difficoltà assoluta, totale", dice, a fianco nell’officina il fratello Mauro e papà Sergio che ancora indossa quel grembiulone per proteggersi da scintille e frammenti di ferro. "E’ un punto di riferimento", sottolinea, accarezzando le parole con il sorriso, lo sguardo all’insegna. Si legge Officine Padovani, di padre in figlio, anno dopo anno a San Bartolomeo in Bosco.

Di nuovo quel tarlo, la manodopera. "Il lavoro c’è – spiega –, ripariamo macchine agricole, facciamo cancelli in ferro battuto, abbiamo clienti che vengono dal mare, da Bologna. Ci cercano". Dagli altri paesi, dalla Polonia. Da qui arrivano ogni due mesi ragazzi che lasciano la loro scuola oltre confine per venire ad imparare il mestiere di fabbro. Due mesi di stage, l’ultimo si è concluso qualche giorno fa. "Hanno tanto entusiasmo, vengono qui per imparare, in quel Paese è un lavoro che piace, che i giovani vogliono fare ancora", una pausa. Poi scuote la testa. "Qui invece niente da fare, i ragazzi preferiscono andare a studiare. E forse fanno bene. Siamo rimasti in pochi". E sempre meno saranno. "Paghiamo gli effetti del consumismo – spiega –, adesso nessuno ripara più gli oggetti. Compri a poco prezzo e come una cosa si rompe, la butti via. Noi invece siamo ancora in grado di riparare attrezzi, tutto. Se ci sono pezzi che si possono realizzare, creare. Ebbene noi li facciamo. Magari anche il manico di un tegame. Lo ripariamo, come si faceva una volta". Hanno attraversato due guerre, dai ferri di cavallo e l’incudine alla tecnologia. E adesso sono loro a rischiare di scomparire. "Mi piace fare il fabbro, appena ho finito la terza media mi sono messo a lavorare. Per far capire quanto sono importanti le tradizioni l’altro giorno ero al museo del mondo agricolo per una dimostrazione".

Martellate e incudine, ferro e fuoco davanti alle famiglie che affollavano il prato. Un diploma d’onore al nonno Mario Giuseppe nel 1965, premio della Camera di Commercio. Ogni pagina, una data, impressa nel ferro, le braccia forgiate da fatica e esperienza. "Sì, vengono dalla Polonia. Noi facciamo gli insegnanti, ci ascoltano. Se ne tornano a casa entusiasti. Qui invece i fabbri li conti sulle dita di una mano, chi veramente ancora può dirsi tale". Altre date, come pietre miliari lungo una strada. Civico 313 di via Imperiale, tenuta agricola Calzolari. Era un capanno di legno. Ferri per i cavalli, cerchi per le ruote dei carri. L’antica incudine, risale al 1903, nel prato del museo. Incantati i bambini, davanti a quel gigante che tirava colpi.