Berloni Cucine in liquidazione, le reazioni a Pesaro. "Fulmine a ciel sereno"

I commenti a caldo del sindaco Matteo Ricci ("voglio capire cos’è successo") e del presidente degli industriali, Mauro Papalini

Roberto Berloni con Michael Chiu (Fotoprint)

Roberto Berloni con Michael Chiu (Fotoprint)

Pesaro, 29 novembre 2019 - Una storia, quella della Berloni Cucine, una della fabbriche storiche del territorio, data in pericolo ormai da qualche giorno. «Berloni uno, Berloni due...», commentava amaramente giorni fa un professionista che aveva seguito la prima parte della vicenda di questa azienda, quando tutto il settore arredo del gruppo di Chiusa di Ginestreto, aveva alzato bandiera bianca finendo in liquidazione nel 2013. Con l’uscita di Antonio Berloni dalla partita-mobile, la sacca di resistenza era passata nelle mani del fratello Marcello nel tentativo di salvare il salvabile. Un sogno – non ancora del tutto tramontato per la famiglia – durato cinque anni, dopo l’entrata dei tre gruppi industriali targati Taiwan. Finito tutto: due soci, e cioè la maggioranza delle quote, ha deciso di uscire e mettere in liquidazione la società.

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Un fulmine a ciel sereno? Per gli addetti ai lavori no, ma il sindaco Matteo Ricci si trova ora con un’altra tegola che gli cade in testa. «Un fulmine a ciel sereno – dice Ricci a botta calda, leggendo il comunicato dei sindacati –. Tra l’altro da presidente della provincia avevo seguito la trattativa per l’ingresso dei taiwanesi, collaborando con la proprietà, i Berloni e con i sindacati. Sono sconcertato, convocheremo subito un incontro coi vertici dell’azienda e con i sindacati, coinvolgendo anche la Regione. Dopo la crisi del 2013 questo marchio storico – continua Ricci – si erano salvati almeno un terzo dei lavoratori e la produzione attuale non era negativa perché pareva che si fosse ripresa. Ora cercherò di capire cosa è successo ed evitare che la crisi diventi drammatica. Il nostro obiettivo è il mantenimento del marchio».

Un rivolo gelato, questo annuncio della messa in liquidazione che è corso come un rivolo gelato sotto la città. Perché non si vogliono fare commenti di nessun genere su questo fortino di resistenza costruito a Montelabbate dalla famiglia di Marcello Berloni con i tre figli, Katia, Andrea e Roberto, quest’ultimo amministratore delegato alla produzione. Ma anche una famiglia senza voce in capitolo perché i Berloni hanno l’uno per cento delle quote dell’azienda. Una situazione di passività totale rispetto ai soci dei Taiwan, benché la famiglia in questi anni abbia cercato, piano piano, di risalire una china difficile all’interno di un mercato maturo come quello delle cucine componibili. Comunque risultati che stavano dando ragione alla tenacia di Marcello e dei suoi figli, perché la Berloni Cucine chiude il 2019 con 19 milioni di fatturato, 85 dipendenti ed una crescita rispetto allo scorso anno del 25 per cento.

Un commento su questa vicenda arriva dal presidente degli industriali Mauro Papalini: «Avevo visto il loro stand due anni fa alla fiera di Milano. Avevano presentato nuovi prodotti al mercato e stavano cercando di rilanciarsi, a piccoli passi. Quello che sta accadendo è un vero peccato anche perché siamo di fronte ad un marchio che ha fatto la storia non solo del mobile di Pesaro ma anche italiano. Senza entrare nel merito specifico della vicenda , quando all’interno di aziende entrano capitali o multinazionali straniere si perde un po’ l’anima – continua Papalini –, ma le multinazionali vanno avanti solamente se c’è un ritorno rispetto agli investimenti che sono stati fatti. Non so se questo sia il caso della Berloni, ma è una legge che vale per tutte le aziende. Se non ci sono questi presupposti non vanno avanti. Una politica che funziona così e vale comunque non solo per i capitali stranieri, ma anche per quelli italiani. Comunque io spero come presidente di Confindustria che si presenti qualche investitore per non fare morire questo marchio che ha fatto la storia economica della città e che ha avuto anche una funzione di stimolo per la crescita di altre fabbriche del settore. Una scuola per tanti. Speriamo che si eviti la chiusura anche perché si rischia anche di disperdere il capitale umano di questa fabbrica».

m.g.