Serena Baldini, 26 anni, operatrice sociale. Due reggiane nella nazionale di flag football

È uno sport lontano cugino del football americano: stessa palla, identico obiettivo (la ‘meta’) ma non c’è contatto fisico

Due reggiane nella nazionale di flag football

Due reggiane nella nazionale di flag football

Serena Baldini, 26 anni, come si è avvicinata a questo sport?

"Sinceramente non avevo la più pallida idea di cosa fosse il flag football".

Un buon inizio: partiamo da lei allora.

"Vivo a Reggio ma sono originaria di Cadelbosco. Laurea triennale in scienze politiche e magistrale in programmazione e gestione delle politiche dei servizi sociali, ho lavorato fino a qualche mese fa alla Dimora d’Abramo, e ora sto studiando per l’esame di Stato. Sono una operatrice sociale ed ex scout".

Non mi dica che…

"Eh sì, ho conosciuto il flag football proprio agli scout! Una delle mie migliori amiche era tra le ‘fondatrici’ della squadra femminile Hogs. Ero curiosa, ho guardato qualche pagina Instagram e mi son detta ’proviamo’".

Due convocate reggiane in nazionale che hanno frequentato gli scout: coincidenza?

"Agli Hogs siamo in 8 ad avere questa caratteristica. Ci siamo influenzate, ma credo che alla base ci sia una mentalità aperta e voglia di sperimentare".

La prima volta sul campo...

"Un pensiero ben impresso: ’Fantastico, qui non ci si muove a caso!’. Gioco in attacco e ho una traccia da seguire, ma va incastrata con quella delle compagne, con chi lancia la palla e con i movimenti delle avversarie in difesa. Pensavo fosse una cosa tutta fisica e poca testa, invece il cervello va usato eccome".

A stereotipi come andiamo?

"(ride, ndr) Quando spiego il flag football parlando delle bandierine attaccate ai fianchi mi dicono ’Ah sì, il gioco che fanno i bimbi di 6 anni’, pensando a rubabandiera. Ma bisogna andare oltre le apparenze, perché a livello professionistico è una cosa molto seria".

Ma non è uno sport da maschi?

"Ma se sono i più ‘fighetti’! Vedete, ogni squadra può personalizzare il vestiario: le milanesi, ovvero le società con più soldi, hanno la bellissima flag rosa tutta decorata mentre noi ne abbiamo una usata venti volte. I ragazzi hanno invece una cura maniacale, abbinando gli accessori alla muta da gioco".

In famiglia cosa dicono invece?

"Il fratello ha fatto da precursore giocando a football americano, quindi ho solo dovuto spiegare un po’ le differenze, ma sono contenti. Il mio compagno invece non è rimasto particolarmente sorpreso: da sempre mi butto in cose un po’ particolari".

Siamo curiosi.

"Vediamo: ho fatto l’Erasmus in Romania, il tour dei Balcani tra tenda e autostop, volontariato in Turchia e uno splendido viaggio in India. Mettiamola così: era lo sport più ‘strano’ che potessi fare e ne era consapevole".

In campo non ha paura quindi.

"Mi sono sempre buttata di ‘ignoranza pura’, indipendentemente da quanto accadeva. Però non è uno sport da traumi: ho avuto solo qualche risentimento muscolare. E dita insaccate".

Alle Olimpiadi ci pensa?

"All’evaluation camp ho avuto per la prima volta l’ansia da prestazione: quando sei a fianco delle più forti, gente che vedevi solo dagli spalti, lo senti e ti gioca a sfavore. Ma è stata una esperienza fantastica, con una coach internazionale come Katie Sowers. La prospettiva Olimpiadi ha risvegliato tutti, me compresa: per ora mi godo il momento".

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