Bologna, strage del 2 agosto, dimenticato il bus simbolo

Il 37, che accolse i corpi delle vittime, giace in un capannone. Invisibile al pubblico perché la Città Metropolitana non ha i soldi

L’autobus 37 dell’Atc che il 2 agosto 1980 fu usato per trasportare i corpi delle vittime

L’autobus 37 dell’Atc che il 2 agosto 1980 fu usato per trasportare i corpi delle vittime

Bologna, 29 luglio 2017 - Il simbolo della memoria giace abbandonato in un magazzino chiuso al pubblico. In una parola: dimenticato. La fine più beffarda per l’autobus 37, una delle istantanee più indelebili legate al 2 agosto 1980, scolpite nella mente di tutti i bolognesi. Il bus si trovava nel parcheggio della stazione al momento dell’esplosione e divenne un improvvisato carro funebre per trasportare i corpi dei morti verso l’obitorio. Le immagini lo ritraggono mentre incede lento in quello scenario di guerra, con i finestrini coperti da alcuni lenzuoli bianchi che qualcuno volle mettere per coprire il carico di tragedia che stava trasportando.

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Dopo quel giorno, il bus matricola 4030 tornò in servizio, facendosi ancora riconoscere agli occhi più attenti. Fino alla pensione, quando fu portato in un capannone ferroviario dell’Atc in via Bigari. Era – e lo sarebbe ancora se la struttura fosse aperta al pubblico – uno dei pezzi pregiati della ricchissima collezione del museo dei trasporti, oggi a marchio Tper: oltre 250 tra veicoli storici, l’ultimo tram di Bologna – immortalato anche da Aldo Fabrizi –, locomotive d’epoca e persino un bus all’inglese di due piani. La struttura è chiusa al pubblico da quasi 15 anni e da circa una decina non apre i battenti nemmeno più alle scolaresche che ne facevano domanda.

Il problema? Sempre quello, i soldi. I muri erano di proprietà della Provincia, oggi Città Metropolitana che hanno inserito lo stabile nella lista delle alienazioni. Destinazione turistica, con il vincolo di mantenere, ristrutturare e aprire il museo con dentro il ‘37’. Belle intenzioni, che si sono tramutate in una serie di buchi nell’acqua. Nel 2011, la giunta dell’allora presidente Beatrice Draghetti diede via libera a un maxiprogetto per la nuova sede unica della Provincia proprio in via Bigari: cinque piani, quasi 6mila metri quadrati di uffici e altri mille dedicati al riscatto del museo. L’operazione sarebbe dovuta costare anche poco, meno di 30 milioni di euro in leasing, ma si scontrò con i tagli del Governo: a fine anno il sogno era già tramontato, con la beffa di una fattura a sei cifre da onorare verso Bologna Finanziaria Metropolitana, che su quel progetto ci aveva comunque lavorato.

La strada successiva, dunque, fu quella a vocazione turistica. «L’idea è quella di vendere lo stabile per farne un albergo, mantenendo il museo al suo interno», spiega Marco Monesi, delegato della Città metropolitana al Patrimonio: «Le due strutture avrebbero dovuto dialogare tra loro, sulla base di un percorso turistico comune –prosegue Monesi –, ma quella strada, bisogna ammetterlo, non sta portando molti risultati». Un eufemismo. Al di là di un fumoso progetto a firma internazionale qualche anno fa, altre proposte non se ne sono viste. E così il museo, con dentro il 37, resta chiuso in attesa di novità. Nel frattempo il deposito è considerato inagibile e solo qualche volenteroso custode ancora si preoccupa di mantenere la collezione e il ricchissimo archivio che l’accompagna in buono stato. In attesa di novità. E dire che un esempio da seguire ci sarebbe, a pochi metri di distanza: il museo di Ustica, un luogo unico nel suo genere in tutta Italia.

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