Casadei e i 60 anni di Romagna Mia, Raoul: "Quell'inno alla nostalgia incantò anche il Papa"

Il nipote dell'autore del brano: "E' la quarta canzone italiana più nota al mondo"

Il maestro Secondo Casadei con il nipote Raoul

Il maestro Secondo Casadei con il nipote Raoul

Gatteo (Forlì-Cesena), 3 agosto 2014 - Non è solo una canzone con l’aria leggera e orecchiabile del valzer, ma anche un simbolo della nostalgia per la propria terra. Romagna mia, l’inno nazionale della Riviera romagnola, fu concepita nel 1954 e da allora ha venduto oltre 4 milioni di copie. «E’ la nostra Let it be», dice qualche romagnolo purosangue che ama i Beatles. L’autore fu Secondo Casadei, «l’uomo che sconfisse il boogie», fondatore della grande orchestra che porta il suo nome, ma a renderla famosa è stato il nipote Raoul, oggi sereno 76enne che si gode il successo di una dinastia musicale dedicata al ballo liscio e ora portata avanti in versione pop -folk da suo figlio Mirko.

Cos’è Romagna mia? «E’ un simbolo popolare, l’emblema del turismo, del ballo liscio, delle tradizioni di Romagna».

Che compie 60 anni. «Alla base c’è anche una grande orchestra che porta il nome della mia famiglia e che dal 1928 continua ad essere viva. Cominciò mio zio Secondo Casadei, io lo seguii, ora continua mio figlio Mirko. Secondo scrisse la canzone io la resi famosa negli anni Settanta».

Come la festeggiate? «Con decine di eventi fino a ottobre inoltrato. Il clou sarà a Gatteo mare il giorno di Ferragosto che è anche il mio compleanno».

All’estero conoscono Romagna mia? «E’ la quarta canzone italiana più conosciuta al mondo dopo O sole mio, Quando quando e Volare. L’hanno tradotta anche in russo e giapponese. Molti italiani emigrati l’hanno esportata perchè ricorda a tutti l’amore per la propria terra. Portano il suo nome una rotonda e due strade».

Dicono che piacesse anche a Papa Paolo Giovanni II.  «La ascoltò nel 1986 durante il viaggio in Romagna e se ne innamorò. Se la faceva suonare appena possibile e scherzando trasformava il ritornello in Polonia mia.... Ma la cantavano pure Luciano Pavarotti e i Deep Purple».

Lei quando l’ha interpretata per la prima volta? «Negli anni Sessanta. La provai al Festival dell’Unità che si svolgeva alla Taverna verde, locale di una coop di Forlì».

Come nacque? «Lo zio si fece una casa al mare e le dedicò una canzone che intitolò Casetta mia. La teneva come pezzo di riserva. Poi una volta a Milano in sala di incisione alla Voce del padrone non avendo un solista per il dodicesimo brano propose quel pezzo. Il direttore artistico, maestro Dino Olivieri, si illuminò: bellissima, ma la chiami Romagna mia».

E fu un successo... «Non subito. Rimase un pezzo locale anche se la trasmetteva Radio Capodistria. Negli anni Settanta, quando io facevo con la mia orchestra 350 concerti l’anno, ebbe il boom. Venne lanciata al Festivalbar e fu un successo planetario».

Il liscio è un ballo attuale? «Certo perchè è popolare, è nell’anima della gente. A Gatteo Mare c’è uno stabilimento balneare dove si balla dalle sette del mattino fino a sera. Sono tramontate le balere, non il liscio che è come il Fado o la Samba. Immortale».

Lei suona ancora? «Solo qualche volta fra amici. Mi sono ritirato al momento giusto. Dovrebbero farlo anche i politici. Chi ha dato ha dato...».

Meglio le estati al mare anni Sessanta o quelle chiassose di oggi? «Tutte belle. Il divertimento è sempre figlio di un’epoca. Anche il chiasso è modernità, comunicazione. Non ho nostalgie, mi danno allegria anche i ragazzini con i capelli multicolori che incontri a Riccione».

I ricordi più luminosi dei suoi anni Sessanta? «Il periodo dai 16 anni in poi. Suonavo al Dancing Levante e facevo il vitellone. Arrivavo con la chitarra a tracolla e avevo sempre un sacco di ragazzine tedesche che mi seguivano».

Come sono cambiati i turisti? «Sono sempre gli stessi. Vogliono divertirsi e star bene. Però bisogna proporre loro sempre idee nuove. Io inventai la Nave del sole e facevo ballare la gente tutto il giorno. Oltre al mare devi offrire creatività, accoglienza, sorrisi».

La miglior qualità dei romagnoli? «Lavorano per passione, non solo per denaro. Hanno il turismo nel sangue. E’ la stessa differenza che esiste fra l’amore vero e quello mercenario. Poi sono anche un po’ anarchici e non guasta».

Un locale che non c’è più e che lei riaprirebbe? «A parte la mia Ca’ del liscio, vorrei rivedere la Capannina del bosco a Rimini. C’era tutto il sapore della Romagna e di Federico Fellini».