Perugia, nuova scoperta nella lotta contro la leucemia

La nuova cura offre l'opportunità di controllo a lungo termine della malattia per tutti i pazienti che non rispondono più alle terapie convenzionali

Medici

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Perugia, 18 maggio 2021 - Nuova scoperta nella lotta contro le leucemie della struttura di Ematologia e trapianto di midollo osseo dell'Azienda ospedaliera di Perugia diretto dal professor Brunangelo Falini, ordinario di ematologia dell'Università degli Studi del capoluogo umbro, e dal suo collaboratore professor Enrico Tiacci. È stata pubblicata il 13 Maggio dalla prestigiosa rivista scientifica New England journal of medicine. Lo studio viene definito una «pietra miliare» nella terapia di precisione della leucemia a cellule capellute, così chiamata per la presenza di caratteristici prolungamenti, simili a capelli, sulla superficie delle cellule leucemiche, offrendo l'opportunità di controllo a lungo termine della malattia per tutti i pazienti che non rispondono più alle terapie convenzionali.

«Tutto va fatto risalire al 2011- commenta Falini - quando il nostro gruppo ha scoperto, e pubblicato sempre nel New England Journal of Medicine, che la leucemia a cellule capellute si sviluppa in seguito ad una mutazione che colpisce selettivamente un gene chiamato Braf. Da qui a pensare che un inibitore di Braf mutato, chiamato vemurafenib e già in uso per il melanoma maligno metastatico, poteva essere efficace anche nella leucemia a cellule capellute resistente ai chemioterapici convenzionali il passo è stato breve. I risultati del nostro studio clinico condotto in Italia con il solo vemurafenib e pubblicati ancora nel New England journal of medicine nel 2015 hanno dimostrato una notevole attività del vemurafenib, con il 91% di risposte di cui il 35% complete in pazienti resistenti alle terapie convenzionali. Purtroppo, anche casi in remissione completa - ha spiegato ancora il professor Falini - mostravano la persistenza nel midollo osseo di 5-10% di cellule leucemiche residue, responsabili, in tempi variabili da paziente a paziente, della recidiva della malattia».

«Pertanto - aggiunge Tiacci - si poneva il problema di come superare questo ostacolo. Dal momento che le cellule leucemiche capellute resistenti al vemurafenib mantengono il CD20, una molecola B linfoide bersagliabile con l'anticorpo monoclonale Rituximab, abbiamo ideato e condotto un secondo studio clinico basato sulla somministrazione in combinazione del vemurafenib e rituximab. Infatti, i due farmaci hanno il vantaggio di non essere tossici per le cellule midollari normali e di uccidere le cellule leucemiche attraverso meccanismi d'azione diversi e complementari. I risultati rivoluzionari di questo studio sono stati pubblicati proprio qualche giorno fa nel New England Journal of Medicine. Rispetto al vemurafenib da solo, questa combinazione ci ha consentito di incrementare il tasso di risposte complete dal 35% al 90% e anche di ottenere questo risultato in tempi più brevi, 4 invece di 8 settimane.

Inoltre, in quasi i due terzi dei pazienti i due farmaci in combinazione hanno eliminato ogni traccia misurabile di malattia residua. Questo si è tradotto in una sopravvivenza libera da recidive molto più lunga. Attualmente, la combinazione vemurafenib più rituximab rappresenta la migliore terapia per i pazienti con leucemia a cellule capellute resistenti alle terapie convenzionali. Dati gli eccellenti risultati ottenuti - conclude Tiacci - stiamo pianificando uno studio di confronto per verificare se vemurafenib più rituximab possa dare, in pazienti di nuova diagnosi che devono ricevere il loro primo trattamento, risultati simili a quelli della chemioterapia standard, però con tossicità inferiore».