Dall'Italia ai confini dell'Ucraina. Racconto del viaggio a ostacoli degli aiuti umanitari

Sul furgone dell'associazione Santa Francesca Cabrini di Lodi per portare cibo, medicine e vestiti

Una volontaria coccola un gattino

Una volontaria coccola un gattino

Kroscienko (Polonia) - E' ormai buio quando si arriva a Medika, uno dei piccoli paesi della frontiera tra Polonia ed Ucraina investito da giorni dall'emergenza rifugiati, persone che scappano dalla guerra. C'è un traffico sicuramente abnorme per questo villaggio di seimila abitanti la cui tranquillità, in questa zona rurale della Polonia, non lontano dalle zone carbonifere della Slesia, è stata stravolta.

Il centro polifunzionale è stato trasformato in polo per la raccolta di viveri e vestiti: i cerchi olimpici in cima alla struttura ricordano che qui dovrebbe essere il luogo degli atleti, ma sul piazzale ci sono solo mezzi di soccorso, furgoni e van militari.

I poliziotti a guardia dell'entrata, sempre trafficata da un viavai di auto, sono nervosi: "no foto", dice in maniera risoluta uno degli "straz miejska", le guardie civiche. Per i sette furgoni dei volontari dell'associazione Santa Francesca Cabrini di Lodi (ai quali anche io mi sono aggregato) carichi di scatoloni arrivati dal capoluogo lodigiano nei giorni scorsi, dopo 24 ore di viaggio tra Austria e Repubblica Ceca, non c'è posto, nonostante il contatto alcune ore prima avesse detto di arrivare senza problemi. Ma non c'è da stupirsi: i polacchi cercano di fare quello che possono, ma il flusso di aiuti e gli arrivi senza sosta li stanno mettendo a dura prova.

"Proseguite per qualche chilometro e potrete scaricare in un capannone". Così facciamo. Lungo la strada verso Przemysl, la nostra destinazione, notiamo colonne di auto ed un cantiere stradale, forse organizzato in tutta fretta per allargare la carreggiata. Qui si aspettano il peggio. Arriviamo al punto finale ed alcuni addetti controllano targhe e documenti. Si scaricano finalmente i cento quintali di generi alimentari a lunga conservazione, medicinali, vestiti, giocattoli per bimbi. I camion sono leggeri ora. Al ritorno, sbandano lungo le stradine di campagna e in mezzo ai boschi. Andiamo a Kroscienko, altra zona di confine, a poche decine di metri dalle sbarre del posto di controllo lungo la strada che, in poche ore, porterebbe dritto a Leopoli, città non ancora in guerra, ma già pronta a tutto. In una piccola gola tra due colline, il "przejscie graniczne", il punto cioè dell'attraversamento della frontiera, sembra il Brennero nel mese di agosto. Un cartello dà il benvenuto nell'Unione europea. Non in Polonia, ma in Ue. E questo è significativo, quasi a voler mandare un messaggio preciso che qui il corso della storia è cambiato ormai da tempo e nessuno ha nostalgie del patto di Varsavia.

Il flusso dei rifugiati è continuo. Arrivano a piedi e in macchina. Persone normali, famiglie con bambini, la cui vita li ha messi davanti ad una scelta quasi obbligata. Gli uomini non ci sono. C'è il divieto di lasciare l'Ucraina per i maschi dai 18 ai 60 anni per organizzare la difesa. Il piccolo campo è organizzato bene: Caritas, Ordine di Malta e Testimoni di Geova gestiscono gli arrivi. Sono ragazzi i volontari, tutti con il sorriso ed una grande disponibilità.

Fa freddissimo. La temperatura è abbondantemente sotto lo zero e cominciano a scendere piccoli fiocchi di neve. C'è chi beve qualcosa di caldo e chi si avvicina al fuoco. Volontari girano con un cartone zeppo di panini imbottiti. I bimbi avvolti nelle coperte con le mamme che gliele rimboccano ogni tanto, quasi come fosse un movimento riflesso. Ma qui i piccoli non sono nella loro stanzetta e le lenzuola non sono fresche e pulite.

Tutti i bimbi che arrivano ricevono subito una barretta di cioccolato. Quasi nessuno piange. C'è chi fa ciondolare il pupazzo tra le mani e chi gioca ai videogiochi. Sono già consapevoli di quello che gli sta accadendo e molti hanno fatto un viaggio lunghissimo per arrivare fino a lì. C'è chi si mette sul ciglio della strada e mostra un cartello. Chiede un passaggio. Sul foglio scritto a mano solo il nome della città ed un cuore. Anche gli animali domestici diventano rifugiati: una volontaria prende in mano un piccolo gatto bianco intirizzito, mentre mamma gatta è nella sua gabbietta. Un piccolo cane, avvolto in una coperta, è infilato nel giaccone dalla sua padrona che lo difende dalle temperature glaciali.

La nostra carovana si sposta quindi a Cracovia dove i furgoni questa volta si riempiranno di persone, undici in tutto: donne, bambini ed anziani diretti a Rimini e in provincia di Savona dai parenti che hanno aperto le porte delle loro case. Un teatro è stato trasformato in un centro di accoglienza: una piccola babele, tra il foyer diventato un porto di mare tra gente che entra ed esce, che chiede informazioni e che semplicemente rimane in attesa di ripartire verso la propria meta e il primo piano riservato ai più piccoli che giocano e dormono. Dopo la trafila burocratica, gli undici rifugiati ucraini salgono sui nostri mezzi. L'ultimo lungo viaggio verso l'Italia. Al Tarvisio c'è il sole. Buon auspicio. A Lodi, dove la carovana viene accolta dagli applausi e dalle lacrime dei parenti e degli amici dei volontari, un piccolo rinfresco vuole rendere meno amaro il trauma dell'arrivo in una terra comunque straniera. Per un attimo l'inno ucraino, che risuona da un telefonino, diventa un filo leggero che li lega di nuovo alla loro patria. Si alzano in piedi, una donna scoppia a piangere. "Sce ne vmerla Ukrajiny", recita il testo, l'Ucraina non è ancora morta.