Shale gas americano contro la crisi energetica: cos'è e perché l'Europa non lo produce

Dagli Usa sono in arrivo 15 miliardi di metri cubi di gnl, la maggior parte estratti con la tecnica del fracking

Shale gas

Shale gas

L'accordo raggiunto qualche settimana fa tra Stati Uniti ed Unione europea prevede la fornitura da parte degli americani di 15 miliardi di metri cubi di gas liquefatto entro quest'anno. L'obiettivo è aiutare l'Europa a liberarsi dalla dipendenza dal metano russo, che conta per il 45% del totale. Un'impresa molto difficile. Nel 2020, infatti, i Paesi Ue hanno importato 155 miliardi di metri cubi di gas a fronte di un consumo di 400 (dati Eurostat). Le forniture americane, che dovrebbero raggiungere 50 miliardi di metri cubi fino al 2030, sono ai massimi storici: nel 2021 sono state pari a 34,1 miliardi di metri cubi. Già in gennaio e febbraio, le esportazioni verso l'Unione europea sono raddoppiate, raggiungendo la quota di 4,4 miliardi al mese.

Rispetto al metano russo, estratto da giacimenti convenzionali, quello made in Usa è ottenuto attraverso la fratturazione idraulica (fracking) di terreni argillosi. É il cosiddetto shale gas, ricavato da pozzi che si trovano a una profondità maggiore (compresa tra i 2 e i 5 chilometri). La tecnica di estrazione, che fa uso di acqua condita con sostanze chimiche, è stigmatizzata dagli ambientalisti per il suo impatto ambientale. Del resto è stato grazie a questa tecnologia, sviluppata su larga scala all'inizio degli anni 2000, se gli Stati Uniti sono diventati il primo esportatore di metano al mondo. Secondo i dati dell'Eia, ente che fa parte del dipartimento dell'energia Usa, nel 2021 su una produzione di 914 miliardi di metri cubi, ben 790 miliardi sono stati ottenuti attraverso la fratturazione idraulica di argille (shale gas) e di rocce arenarie (tight gas). Tuttavia in Europa, al contrario di quanto avvenuto oltre Oceano, lo shale gas non ha mai preso piede. E questo nonostante molti studi avessero rilevato la presenza di grossi giacimenti, concentrati soprattutto nei Paesi dell'Europa orientale. Secondo le stime più generose, le riserve del Vecchio Continente ammonterebbero a 27mila miliardi di metri cubi, sufficienti a coprire 60 anni di consumi. Questo particolare metodo per la produzione di metano si è infatti scontrato con l'opposizione dei movimenti ambientalisti e con difficoltà tecniche. "Per lo shale gas non si tratta solo di un problema di permitting contrariamente a quanto concerne l'Adriatico" spiega Massimo Nicolazzi, docente dell'Università di Torino con un'esperienza decennale come manager di Eni e Lukoil. "Dalle prime rilevazioni sembrava che la Polonia dovesse diventare la nuova Arabia Saudita", ma poi si è scoperto che le cose erano un po' più complicate. Infatti, prosegue Nicolazzi, "il coefficiente di riempimento della roccia, quanto idrocarburo si può ricavare, era molto più basso di quanto si pensasse". Ma non è stata soltanto la scarsa qualità dei giacimenti a frenare la corsa dello shale gas in Europa. Anche preoccupazioni di carattere ambientale hanno giocato un ruolo. Per estrarre il metano occorre estendere sempre di più l'area oggetto delle trivellazioni: "La produzione dopo un anno declina anche del 60% e per mantenerla ai livelli precedenti bisogna continuare a perforare". "Parliamo di un processo produttivo difficilmente realizzabile in aree densamente popolate" sottolinea il docente. Senza contare i problemi logistici che comporta il fracking. «Lo shale gas si ricava da rocce impermeabili e per estrarre l'idrocarburo devi fare a pezzi la prigione: significa iniettare grandi quantità di acqua e vapore ad alta pressione uniti a solventi chimici» aggiunge Nicolazzi, «con la conseguenza che si ha un traffico costante di autobotti e il problema di decidere cosa fare dell'acqua di risulta». Insomma, a impedire lo sviluppo dello shale gas in Europa "sono stati fattori tecnico-economici piuttosto che politici», conclude il docente.