Kozlov: "Mingus, un’eredità di passione"

Domani al Duse il concerto della Big Band che celebra i cento anni dalla nascita del genio del jazz. "Nella sua musica amore e rabbia"

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di Gian Aldo Traversi

Quando gli angeli suonavano il jazz, nel ghetto di Watts che guarda Los Angeles c’era un giovane contrabbassista che azzardava un cool dalle architetture sofisticate assieme a una volontà eclettica nello scardinare ogni ingessato romanticismo. Ad accorgersene fu Red Callender, virtuoso dello stesso strumento, affascinato dall’ humour rabbioso con cui s’annunciava quel ragazzo un po’ goffo che un giorno sarebbe diventato una delle divinità più intriganti della storia del jazz. Si chiamava Charles Mingus. Del ’teatro delle passioni’ messe in scena dal genio meticcio di Nogales che oggi avrebbe compiuto cent’anni, ci racconta Boris Kozlov, direttore della Mingus Big Band in concerto domani al teatro Duse (ore 21.15), esclusiva del Bologna Jazz Festival. Lascito di suoni belli e terribili che celebra il Mingus Centennial Tour del ’Beneath the Underdog’ (’Peggio di un bastardo’, corto stasera in programmazione al Cinema Galliera), titolo di un’autobiografia che lambisce i bordi della follia di una società stratificata sui colori della pelle.

Kozlov, può racchiudere l’epica di Mingus in tre aggettivi?

"Immediata, appassionata, intrepida: il ponte che collega il bebop degli anni Quaranta col free dei Sessanta. Altra cosa è l’attaccamento di Charles alla concezione del sound orchestrale di Ellington anziché puramente solistico".

Se dovesse metterne in fila le stagioni musicali da dove inizierebbe?

"Con lui che ascoltava Duke all’età di dodici anni e allo stesso tempo andava alla vecchia chiesa sconsacrata il mercoledì con la matrigna. È lì che è nata la mente musicale di un artista parzialmente infelice".

Se fosse stato felice avrebbe prodotto altrettanti capolavori?

"Certo non gli stessi".

Magari senza la rabbia per i diritti negati agli afroamericani?

"Chissà? Ma la maggior parte delle creazioni sono una sottolineatura dell’amore per gli altri musicisti".

Come ne spiega la passione per i grandi compositori classici?

"Con il fatto che è cresciuto suonando musica classica su violoncello e trombone, spesso in trio con le due sorelle. Così ha sviluppato un profondo amore per le sinfonie di Debussy e Stravinsky".

Che cosa ha lasciato al progresso della musica e del jazz?

"Un mix di blues, musica sacra, be-bop e classica. Melodie appassionate, composizioni di percorsi a ostacoli, opere estese come ’Sue’s Changes’, dove tutto funziona come in un concerto per solista".

Mingus ha avuto una forte influenza sul jazz italiano, forse perché sono mondi vicini?

"Di sicuro in grande sintonia con il modo in cui Charles viveva il mondo dei suoni. Ho sentito da Sue Graham, sua vedova e musa che ci ha lasciato il 24 settembre scorso, di quanto lo amasse Alberto Alberti e che i suoi gruppi avrebbero trascorso la maggior parte del loro tempo in Italia".

Senza Sue a fare da collant, il viaggio della Mingus Big Band sarebbe stato più accidentato?

"Non sarebbe neppure decollato. È un percorso che s’è letteralmente inventato nel 1991, gestendolo per quarant’ anni".

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