Sinisa Mihajlovic ha unito una città dividendola. Ha compiuto – in una terra spesso abituata alla consorteria, all’uniformità, al piccolo cabotaggio, al politicamente definito – un’azione rivoluzionaria. Si è permesso di essere scorretto, duro, ha scelto l’abrasione alla "teneressa", come il cardinale Matteo Zuppi ha definito quella bonomia tipica petroniana ed emiliana che riduce le "zeta" a dolci "esse", quasi in un abbraccio iscritto nell’elica del dna.
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E l’ha fatto non solo con quell’appoggio a Lucia Borgonzoni e Matteo Salvini nella campagna elettorale più raccontata dal Dopoguerra (le regionali 2020 della vittoria di Stefano Bonaccini), ma anche con conferenze stampa sorprendenti, dichiarazioni mai scontate, scelte criticate. Non è un caso che dopo l’intervista-bazooka dell’appoggio ai leghisti – finita anche al centro del libro del governatore – raccontò con un sorriso: "Mi sono rotto le pa.. di unire. Con la malattia ho unito tutti. Ma io sono divisivo. Da sempre. Sono uno str...".
Ecco, quello che nemmeno lui aveva previsto da "str...", figuriamoci noi di carne tenera, era che quella spiazzante e divisiva diversità, come l’aveva definita lui stesso, potesse finire per unire ancora di più. A un certo punto Bologna, separando il lato sportivo da quello umano, ha capito Sinisa. È entrato sottopelle, perché s’è mostrato con la verità. L’annuncio della malattia, le partite dove non si capiva come potesse reggersi in piedi, la recidiva e le lacrime, 19 pillole al giorno, 72 chili di resistenza. E poi quella frase, che celebriamo nel nostro fascicolo: "Non sono un eroe, sono solo un uomo. Ma voglio dire una cosa agli altri pazienti che soffrono: non si devono sentire meno forti. Alla fine il sole torna".
E il sole è tornato, anche in questa giornata dove pare tutto più buio. È tornato perché Sinisa ci ha cambiati con la sua diretta franchezza, la sua ispida realtà. Ci ha insegnato a non imbellettare, a non raccontare né raccontarsi frottole, a combattere un gradino alla volta, perché "si va avanti un obiettivo alla volta, un giorno alla volta, una settimana alla volta".
Tutta Bologna, tutta l’Emilia-Romagna, tutt’Italia, tutto il mondo parlano di Sinisa. E lo piangono. Come tutti i malati, dai bimbi al padre di famiglia al nonno affetto da leucemia mieloide, perché questo aveva smosso Mihajlovic: generazioni, famiglie. Aveva dato speranze: il Carlino ha raccontato molte loro storie e molti incontri con quel tecnico così burbero, ma anche così capace d’affetto. E le due dimensioni si tengono insieme. Sono, forse, facce della stessa medaglia. Sinisa Mihajlovic è il Sant’Orsola, è Bologna, è l’Emilia-Romagna, è il coraggio dei suoi medici, è l’orgoglio, la pervicacia, l’ostinazione, la voglia di vita dei suoi pazienti. Ma anche la frustrazione, la rabbia, la noia per quelle giornate che spesso non passano.
Al Seràgnoli l’Ematologia "è accogliente, non è deprimente, non sembra un carcere turco come certi reparti", mi aveva raccontato una volta un giovane uomo che ha frequentato quelle stanze per un tumore. Storie di eroi di tutti i giorni, storie di uomini e di donne, per capire meglio la storia di Mihajlovic.
Dunque. Poteva dividere. Forse Sinisa voleva anche un po’ dividere, ce l’ha raccontato lui e noi ve l’abbiamo raccontato, con schiettezza. Come avrebbe voluto. Ma ha finito per unire.
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