Caro amico ti scrivo... per ricordare la tua lezione

Un maestro schivo, un pensatore bohémien, un giocoliere delle parole con la capacità di parlare di filosofi, cantautori e di appassionarsi di basket

Cesare Sughi

Cesare Sughi

Bologna, 27 maggio 2021 - Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’, e siccome ora sei molto lontano, più forte ti scriverò. Prendo in prestito le parole di Lucio Dalla da L’anno che verrà, altrimenti la commozione mi frega. Ma so che Cesarone Sughi apprezzava Lucio, come del resto Vasco Rossi, perchè conosceva la musica e i cantautori come nessun altro. Quindi da lassù sdoganerà la licenza poetica. Spesso terminava le mail che ci scambiavamo per concordare i servizi con un ’Ti voglio bene’. Infatti ci volevamo bene davvero, pur con impostazioni e vite professionali tanto diverse. Con il rispetto e l’amicizia che si deve a uno come Cesare che non si sentiva un Maestro, ma lo era. Se fossi un regista uno come lui lo avrei ingaggiato subito. Un personaggio così, nella sua strampalata esteriorità, può stare a proprio agio in un film o camminare dentro le pagine di un libro. Come certi pensatori bohémien, Cesarone non si curava troppo delle cose materiali. Poteva indossare una giacca di lana d’estate o un pullover estivo d’inverno quando il termometro detta legge verso lo zero. La camicia, rigorosamente senza cravatta, sempre allacciata sull’ultimo bottone, la manica destra di qualsiasi indumento sempre lisa verso il limite, chissà perchè. Forse non lo ha saputo mai nemmeno lui. Un fenomeno, un intellettuale coltissimo e profondo prestato al giornalismo, capace di stare da ambo le parti come il più abile giocoliere del Cirque du Soleil. Che personaggio. Unico e irripetibile. La sua carriera piena di mostrine sul petto che non ha mai esibito dice tutto. Dalla laurea in lettere con Luciano Anceschi poi con lui assistente universitario, alla collaborazione con Umberto Eco, alla direzione editoriale della Bompiani e della Cappelli. Poi l’approdo al Carlino, accanto ai colleghi che lo guardavano col rispetto che si deve agli uomini di cultura. Caro amico ti scrivo. Così nel rewind della memoria tornano quelle chiacchierate lì alla tua scrivania, prima alla redazione cultura, poi all’ufficio cronaca, sempre ingombra di carte, libri, bloc notes per gli appunti, fotocopie, fogli strappati, fax e chissà cos’altro in uno splendido, perfetto, artistico disordine. Solo a guardarla quella postazione faceva venir voglia di prendere in mano la bussola per uscirne. Oddio mi sono perso sulla scrivania di Cesare. Eppure. Da lì, da quel computer incorniciato dal caos calmo sono usciti articoli raffinatissimi, profondi, di una scrittura impeccabile. L’università, la cronaca, la politica, poi la rubrica delle lettere in un dialogo infinito con i lettori. Inserisci un gettone nel juke box e io scrivo, dicevi scherzando. E correggi, pure se c’è qualcosa che non va. Ma non c’era mai nulla da modificare. Tranne piccoli refusi che spuntavano come insolenti folletti fra le righe. Ma gli intellettuali, si sa, sono distratti per vocazione e conformazione mentale. Ah già, non volevi che noi colleghi ti definissimo un intellettuale, eppure sapevi passare da una conversazione su Schopenauer ad un dibattito sul percorso del tram o su Basket city. Ascoltavi Radio Maria nelle tue sere di solitudine e sapevi conversare per ore di fede e religione, tu di formazione laica, a colloquio col Cardinale Giacomo Biffi. Chissà cosa vi siete detti. Resti un numero uno, che ti piaccia o no, caro Cesare. E adesso tocca a me. Ti voglio bene.