Si può desiderare la verità dopo che una verità è già stata accertata? Sì. Significa mettere tutto in discussione? No.
Non vuole dire questo, semmai, togliere ombre e polvere dalle testate d’angolo? Sì. Esempi: dalla presenza di un quarto uomo alla sparizione del foglio di servizio della pattuglia dei carabinieri in servizio quella notte al Pilastro di trent’anni fa.
E, infine, si può definire lesa maestà rileggere atti prima non sempre collegati (di più procure o questure), anche alla luce di nuove tecnologie, come la digitalizzazione degli atti? No.
La delicata vicenda della Uno Bianca porta con sé un fardello dolorosissimo e solo i familiari delle vittime conoscono e sopportano questo carico con modalità differenti e tutte rispettabili. Così come va portato rispetto a chi ha speso anni della propria vita a indagare su una delle vicende più violente e devastanti della storia repubblicana, arrivata sul finire di un periodo nerissimo soprattutto per Bologna.
Ma ci sono punti che meritano un’ultima lettura. La mole dei documenti che gli investigatori vagliano è enorme: si contano 277 faldoni e 11 allegati per quasi 50 metri lineari, in merito a un arco di tempo che va dal 1990 al 2000, con etichette digitali a 260mila immagini. C’è tutto quello che riguarda la vicenda giudiziaria della banda, dalle prime fasi dell’indagine fino alla Cassazione. Ma c’è anche parte del materiale delle Procure di Rimini e Pesaro. Tutti documenti che non hanno mai avuto una lettura organica. Eravamo partiti dal desiderio di verità e le parole ci aiutano a superare la fragilità delle emozioni: desiderare deriva dal latino sidus, sideris, che sta per stella. Ha a che fare con le stelle, dunque con la luce che spunta dall’oscurità. Ma ha a che fare anche con il «de», il che ci riporta a un senso di movimento, direzione, ma anche di relazione, scelta e infine di indecisione, privazione. Sull’Uno Bianca la verità è l’ultimo desiderio.