
Il ballerino e coreografo Fabrizio Mainini
Con il Musicfilm Festival sarà oggi a Ferrara il noto ballerino, nonché coreografo dei più grandi show televisivi Rai e Mediaset, Fabrizio Mainini, con un workshop di musical per il cinema i cui frutti saranno portati in scena dal vivo in occasione della cerimonia di chiusura.
Fabrizio Mainini, cosa ci può dire del workshop?
"Affronteremo Hearth Song con l’aggiunta di They Don’t Care About Us di Michael Jackson, rivisitati da me. Brani che, soprattutto in questo periodo storico, hanno un significato importante. Punto a un approccio espressivo, interpretativo: chiederò ai ragazzi di esprimere l’anima delle parole".
Qual è, per lei, il valore universale della danza?
"Chi danza arriva a possedere una conoscenza del corpo trasversale. Dalla classica alla contemporanea, alla moderna, fino ai balli di gruppo o i latino americani: la danza è occasione di socialità. Lo vedo bene nei corsi di movimento coreografico, alla Factory di Gabriele Cirilli: cambia l’atteggiamento, l’espressione, il modo di porsi con gli altri".
Nei talent televisivi si instaura, spesso, un rapporto critico verso gli altri. Talvolta polemico.
"Noi ballerini siamo sempre criticati, se non dagli insegnanti, dagli stessi colleghi. Bisogna fare tesoro delle critiche, che a volte servono anche per tirar fuori il carattere, a far crescere. Oggi poi, più che criticare il collo del piede, io preferisco vedere un ballerino che si concede in tutto, espressivamente ed emotivamente: la tecnica serve, ma si deve avere anche altro da spendere per non rimanere un freddo esecutore".
Lo scopo del suo workshop è formare artisti e ballerini: quanto bisogno c’è?
"Tanto. Con l’avvento dei social tutti sono diventati un po’ performer, ma serve un insegnante che sappia dare giusti consigli e indirizzare la formazione. A lungo andare è quella che ti paga, perché diventa dettaglio ed esperienza. Poi bisogna ritrovare il contatto tra i ballerini e reindirizzarli più su un ballo in cui non si è l’unico interprete".
Che consigli dà ai giovani ballerini?
"Di studiare. Anche con più insegnanti, per avere un panorama di stili coreografici diversi e per poter definire il proprio. Se ci si omologa, si è uguali agli altri ed è controproducente. Io ho studiato tanti stili e ho cercato di unirne gli elementi per crearne uno mio".
Cosa deve avere una coreografia per essere perfetta?
"Io non sono mai soddisfatto dei miei lavori. Non perché non mi piacciano, ma perché è uno stimolo per fare sempre meglio. Non c’è una coreografia perfetta, bensì una che devi semplicemente amare, sentire, non per forza struggente com’è di tendenza nel moderno, dev’essere anche gioia".
In un mondo che vive di idoli social, che effetto fa vedere i giovani rivolgersi a lei, riconoscendo il suo ruolo nella danza?
"Mi fa un gran piacere. Spero che magari, a lezione, respirino la professionalità e percepiscano tutto quello che ho fatto in questi anni di carriera. Spero inoltre che ne escano arricchiti. In un mondo social mordi e fuggi, per non diventare una cometa bisogna essere bravi a fare la gavetta e ad avere sostanza, oltre che immagine".