Gianluga Giorgolo e la logica del viaggiare

Modena, Olanda, Canada, Inghilterra e ritorno: storia di un ‘cervello in fuga’ che ha insegnato anche a Oxford

Gianluca Giorgolo

Gianluca Giorgolo

Modena, 12 febbraio 2016 - Rientrato da poco a Modena, Gianluca Giorgolo, è uno dei, tristemente famosi, ‘cervelli in fuga’ italiani. Lo abbiamo incontrato per cercare di analizzare con lui perché e cosa l’ha spinto verso una esperienza lavorativa che lo ha visto confrontarsi con diverse importanti realtà europee e non solo.

Gianluca, da dove sei partito?

«Dopo cinque anni di liceo San Carlo ero un diciottenne piuttosto confuso su cosa volessi fare nella mia vita (ma suppongo che questa sia una esperienza piuttosto comune). Non avevo nessuna idea di come scegliere un percorso universitario sulla base di quello che mi piaceva fare e di quello che avrei poi potuto fare in seguito. La mia passione è sempre stata la matematica, ma alla fine sono finito a studiare Scienze della Cultura. Alla fine forse è stato meglio, visto che comunque sono finito a fare in un certo modo matematica per i fatti miei. Dopo essermi laureato a Modena ho continuato i miei studi per un paio di anni a Pavia. Poi me ne sono andato dall’Italia per diversi anni».

Come e cosa ti ha portato a fare la tua esperienza di ricerca/lavoro in Olanda?

«La scelta di andare in Olanda è stata influenzata da un numero notevole di fattori sconnessi, ma forse non troppo. La mia prima esperienza con i Paesi Bassi è stata durante uno scambio culturale fra il mio liceo e uno della campagna del Brabant. Durante questo scambio mi sono fatto un caro amico, Laurens, con cui ho continuato a tenermi in contatto con visite reciproche. L’Olanda è diventata parecchio presente nel mio percorso accademico quando ho cominciato a interessarmi di logica, visto che è uno dei paesi che ospita una delle più grandi ed attive comunità di logici (uno strano incrocio fra filosofi e matematici). Durante una scuola estiva di Logica a Nancy in Francia, ho conosciuto un’allieva italiana di Michael Moortgat (come il birrificio belga), quello che poi sarebbe diventato il mio supervisore durante il dottorato ad Utrecht. Di nuovo mi sono tenuto in contatto con lei e quando ho deciso di intraprendere la carriera accademica e di fare un’esperienza all’estero le ho chiesto di mettermi in contatto col buon Michael. Dopo avere letto la mia tesi di laurea, Michael mi ha chiesto se avevo voglia di scrivere un progetto per un dottorato da farsi con lui e altri ricercatori ad Utrecht. E così ho finito per vivere quattro/cinque in Olanda. La scelta iniziale è stata spontanea, il non tornare subito in Italia purtroppo una scelta imposta dalle condizioni lavorative nell’università italiana».

Come sei finito a insegnare a Oxford? Che tipo di corso tenevi?

«A Oxford sono finito due volte. Dopo avere lavorato in Canada insieme al mio amico e collega Ash Asudeh, ho fatto qualche mese a Oxford per preparare un progetto di ricerca nel contesto di un programma di fondi europei alla ricerca per giovani (e meno giovani) ricercatori, che si chiama Marie Curie. Nell’attesa della risposta dal consiglio europeo per la ricerca, ho cominciato a lavorare al King’s College di Londra, nel team di ricerca di Shalom Lappin. Dopo un annetto di attesa ho ricevuto una risposta positiva dal consiglio per la ricerca, sono arrivati i fondi e io mi sono spostato ad Oxford. Il mio progetto, da poco terminato, verteva sull’applicazione dell’algebra per modellare la maniera in cui il significato di una frase, un testo emergono dai significati degli elementi che li compongono: questo è stato quello che ho anche insegnato mentre ero là. Mi sono dovuto ricalibrare rispetto a sistemi educativi molto diversi rispetto a quello da cui venivo: sia in Olanda che in Inghilterra l’insegnamento è un processo di costruzione condiviso fra docente e studenti. L’idea di fondo è quella di stimolare il pensiero critico della classe cercando di capire insieme quali sono le domande interessanti, e le possibili risposte, per un certo argomento. Anche se insegnavo logica o semantica formale, discipline in cui c’è spesso una risposta giusta o sbagliata, gli studenti si aspettavano da me la possibilità di ‘giocare’ con la materia e di arrivare alla risposta a piccoli passi, attraverso piccole correzioni di rotta continue. Che poi è quello che effettivamente succede anche nel lavoro di ricerca».

Quali sono le cose che importeresti in Italia dall’estero e viceversa?

«Brutta domanda. A livello personale credo che il decidere di trasferirsi in un altro paese sia sempre un ‘gioco a somma zero’, nel senso che volendo dare un punteggio di valore alle cose che si lasciano e a quelle che si trovano spesso il totale non cambia. Comunque, ci sono diverse cose che credo farebbero bene a questo paese e che ho potuto sperimentare all’estero. In Olanda, una delle prime cose di cui mi sono accorto è l’importanza che le persone danno a quello che è il patrimonio comune. Non è vero che i paesi del nord sono più puliti, tutti buttano cartacce a terra. E’ che poi la gente pulisce perché sente le strade, le piazze come qualcosa che le appartiene. E ne fanno uso, organizzando feste spontanee in cui gli abitanti di una strada chiedono il permesso di chiuderla, noleggiano castelli gonfiabili, comprano tanta birra e fanno festa. Tanti amici olandesi si stupiscono di quanto siano belle le case italiane all’interno e di quanto siano ‘sgarrupate’ le città italiane viste della strade. Un’altra cosa che ho potuto sperimentare in prima persona all’estero è l’estremo rispetto che c’è per il lavoro altrui. Nessuno viene considerato come facilmente scambiabile, come un pezzo di ricambio. Chi è responsabile per il lavoro degli altri sembra parecchio cosciente del fatto che un lavoratore non è solo un insieme di capacità professionali, ma è anche un membro di una rete di collaborazioni ed esperienze che sono difficili e costose da costruire. Non mi sembra che questo sia lo stesso sentimento che permea molti ambienti di lavoro in Italia. Nei paesi più ‘giovani’ in cui ho vissuto (come il Canada o l’Olanda) c’è anche una certo senso di libertà di creare e sperimentare che a volte credo sia un po’ bloccato dal peso di avere tanta storia alle spalle, per chi vive in paesi come l’Italia o il Regno Unito. I canadesi e gli olandesi sono un po’ barbari a volte, ma a volte anche delle buone idee e non hanno paura di prendere in prestito e modificare quello che c’è stato prima. Cosa porterei dell’Italia all’estero? Beh, gli italiani credo sappiano farsi il mazzo molto di più di tanti altri popoli (anche se io non condivido questa capacità, anzi sono parecchio pigro). In generale però non credo che sia semplicemente possibile prendere un aspetto positivo di un sistema ed impiantarlo in un altro. È fondamentale guardarsi attorno e confrontarsi con gli altri, ma poi è necessario fare proprie le idee buone e applicarle nel contesto, magari stravolgendole».

Come vengono visti gli Italiani all’estero, soprattutto in campo accademico?

«Beh questo dipende parecchio dal paese. Per l’esperienza che ho avuto io, in campo accademico l’ambiente è decisamente internazionale e quindi la provenienza geografica non ha un peso effettivo nella valutazione professionale, se non in senso positivo per il fatto che ci sono punti di vista diversi che emergono da esperienze educative differenti. E questo nella ricerca è sempre una ricchezza. Comunque arrivati ad un certo punto della carriera accedemica si nota in ogni caso una certa omolagazione nazionale a livello professionale, per cui la maggior parte di accademici di successo in Olanda sono olandesi, e similmente in Inghilterra sono inglesi. Al di fuori del mondo universitario le cose sono parecchio diverse. Il paese in cui ho avuto meno l’impressione che la provenienza geografica avesse un peso nella maniera in cui le persone si relazionano allo ‘straniero’ è il Canada. Il paese in cui ho percepito più pregiudizio verso l’Italia è l’Olanda, forse perché gli olandesi hanno un’esperienza più diretta dell’Italia che però in molti casi è ristretta al contesto turistico. Per quanto riguarda l’Inghilterra le cose sono un po’ diverse. Il passato imperiale degli inglesi credo gli abbia permesso di superare l’associazione automatica fra provenienza geografica e certi stereotipi culturali. Oxford in particolare è una città abbastanza cosmopolita per le sue dimensioni, per non parlare poi di Londra».

Ora che sei tornato a Modena, hai intenzione di ripartire?

«Sono tornato a Modena per cause di forza maggiore, adesso sinceramente potrei andarmene di nuovo, ma non ho voglia. Nel frattempo ho anche capito che in questo momento il mondo accademico non mi rende molto felice. Per me è troppo staccato dal mondo ‘vero’, e richiede una dedizione quasi monastica alla ricerca di risposte a quesiti che non trovo troppo interessanti, almeno nel mio campo. Tornando qui ho anche ritrovato un po’ quelle radici, di cui non sono mai sicuro dell’esistenza, ma che a volte si fanno sentire. Adesso come adesso mi piacerebbe fare qualcosa qui. Mi sono di recente messo in contatto con una mia ex-collega tedesca di Utrecht, Christina, che condivide con me i dubbi sul mondo accademico attuale. Magari ne nascerà una collaborazione fra Modena e Bielefeld… (una città in Germania, che forse non esiste)».