di Franco
Bertini
Non era certo per la lirica che fin da oltre quarant’anni fa i pesaresi si alzavano nel cuore della notte o non andavano neppure a letto per andarsi a sdraiare, con sacco a pelo e coperte davanti alla porta di una filiale bancaria per essere fra i primi a sottoscrivere l’abbonamento per assicurarsi quaranta duri centimetri di cemento sui gradoni di quella specie di hangar che, semmai fu patria primigenia di qualcuno, lo fu e lo sarà sempre per il basket, questa specie di brivido che da tempo immemore e chissà mai perché corre sottopelle di migliaia di persone di queste terre. Era un po’ come riservarsi un posto sui banchi della chiesa. Si potrebbe obiettare, che sì, va bene, ma queste erano cose d’altri tempi, quando eravamo Scavolini e vincevamo scudetti, coppe, trofei. Allora cosa significa quando un’antica usanza che fu vanto di una città si perde nella notte dei tempi senza che nessuno più ne abbia memoria ed improvvisamente torna fuori proprio adesso che non militiamo più sull’Olimpo del basket, che siamo retrocessi in A2, che abbiamo un allenatore che si chiama Sacripanti come una persona normale, che abbiamo una società e una squadra tutte nuove che devono ancora dimostrare tutto? Forse vuol dire che il popolo del basket, sismograficamente sensibile, anche inconsciamente, alle più minime scosse "sente" che c’è dell’antico in questo nuovo assetto baskettaro che si appresta a scendere in campo in un campionato dove le battaglie saranno tutte all’ultimo sangue. E allora ecco che lo spirito degli avi si risveglia in loro e torna a svegliarli anche alla notte alle tre pur di andare a fare un abbonamento. E’ solamente un curioso fatto di cronaca? Non direi proprio, piuttosto un segno di continuità di una storia cittadina che ha ormai tutti i connotati di una cultura. Rifanno oggi quello che fecero un tempo i loro padri e nonni. Questa è gente che tornerebbe anche sul Piave.