ANTONELLA MARCHIONNI
Cronaca

Si salvò dall’infarto, ma si infettò in ospedale. Morto a 60 anni: maxi risarcimento ai familiari

L’uomo non è sopravvissuto alla polmonite post-ricovero. Per il tribunale fu "inadeguata assistenza". Ai parenti 462mila euro

Si salvò dall’infarto, ma si infettò in ospedale. Morto a 60 anni: maxi risarcimento ai familiari

L’ingresso del San Salvatore. Secondo il tribunale civile di Pesaro, durante la degenza. non fu garantita la sterilità di attrezzature, personale e ambienti

Maxirisarcimento da 462mila euro pagato dall’ospedale di Pesaro per la morte di un paziente. L’uomo, 60enne, imprenditore nel ramo termoidraulico, era sopravvissuto a un infarto ma durante il ricovero aveva contratto un’infezione che, due mesi e mezzo dopo, è risultata letale. Il tribunale civile di Pesaro ha stabilito un risarcimento ai familiari – la moglie 58enne e al figlio 35enne – riconoscendo che il contagio da Escherichia Coli e da Cytomegalovirus che ha provocato la polmonite letale fosse avvenuto proprio all’interno delle mura ospedaliere.

Il paziente era stato trasportato d’urgenza il 23 aprile 2018 all’ospedale di Pesaro con un forte dolore al torace. Era stato subito ricoverato in Cardiologia e poi dimesso il 6 giugno con diagnosi di infarto del miocardio. Da lì era stato sottoposto a controlli ambulatoriali fino al 29 giugno quando venne di nuovo ricoverato in codice giallo. L’uomo è mancato un paio di settimane dopo, il 12 luglio. Due giorni dopo è stata effettuata l’autopsia da cui è emersa la diagnosi di "fibrosi di infarto miocardico acuto diaframmatico".

Ma i familiari hanno voluto vederci chiaro e hanno incaricato un consulente tecnico di parte che, in una relazione successiva, ha accertato che il paziente fosse deceduto per le complicanze di un’infezione correlata a una "inadeguata assistenza – si legge nella sentenza – prestatagli durante la degenza dal 23 aprile al 6 giugno 2018, per non aver garantito la sterilità degli ambienti, del personale e delle attrezzature". Secondo il tribunale di Pesaro, quindi, alla base della morte dell’imprenditore ci sarebbero dei "comportamenti omissivi rispetto alle norme igienico-preventive riferibili all’attività del personale sanitario di tale presidio", e a questo si aggiunge "un successivo comportamento omissivo nei confronti dell’infezione, non diagnosticata e quindi non adeguatamente trattata".

La famiglia dell’imprenditore è stata assistita dall’avvocato Ugo Ruffolo, del foro di Bologna. "Mai il risarcimento monetario può ripagare la perdita di una vita umana – commenta il legale –. È piuttosto una forma di riparazione e di responsabilizzazione. Il fatto di pagare rende molto più attente le strutture ospedaliere e può considerarsi una forma di ’moralizzazione’. I giudici hanno confermato un principio di diritto su cui avevamo basato la nostra difesa e cioè il fatto che quando si è ricoverati in una struttura ospedaliera, se il decesso avviene non per effetto causale diretto del morbo o della malattia per la quale si è ricoverati ma per qualsiasi altra infezione imputabile a cure ricevute, omesse o alla cattiva gestione del contratto di spedalità, la responsabilità dell’ospedale è piena. E poco importa quanto grave fosse la malattia di partenza, quando quella malattia non è la causa del decesso".