Aceto balsamico tradizionale. Gocce di storia per una Dop d’oro: "Ora diventi patrimonio Unesco"

La Consorteria di Modena punta al massimo riconoscimento dopo la denominazione ottenuta nel 2000. Conosciuto fin dai tempi degli antichi Romani, il prodotto è diventato nel tempo anche volano del turismo.

Aceto balsamico tradizionale. Gocce di storia per una Dop d’oro: "Ora diventi patrimonio Unesco"

Aceto balsamico tradizionale. Gocce di storia per una Dop d’oro: "Ora diventi patrimonio Unesco"

di Marco Pederzoli

MODENA

A Modena e dintorni circola un modo di dire, che suona più o meno così: "Il vero aceto balsamico non si compra; si regala!". Un’espressione, in altri termini, fortemente indicativa della grande preziosità del prodotto. Del resto, con quale prezzo si potrebbero quantificare i 12 anni che occorrono affinché un aceto possa cominciare a definirsi "tradizionale"? O, ancor più, come si può dare un prezzo reale a una boccetta di extravecchio, che prima dell’imbottigliamento deve trascorrere almeno 25 anni in acetaia? Si tratta insomma di qualche cosa di estremamente prezioso, che fin dal 2000 è protetto anche a livello comunitario grazie al marchio Dop (Denominazione di Origine Protetta), ma che presto potrebbe ottenere un altro importante riconoscimento. La Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, infatti, è tutt’oggi impegnata per ottenere il riconoscimento dell’Aceto Balsamico Tradizionale quale "Patrimonio immateriale dell’Unesco". Ad essere riconosciuto, in questo caso, sarebbe appunto quel patrimonio di conoscenze e di procedimenti che si tramandano da secoli di generazione in generazione, per produrre un’eccellenza che tutto il mondo invidia al Modenese.

E’ pressoché impossibile determinare una storia precisa della genesi di questo aceto. Ci sono tantissimi indizi nei documenti, ma nessuna…prova, se non in tempi molto più recenti. Si sa infatti che gli antichi Romani, non avendo a disposizione lo zucchero di canna, che verrà introdotto solo nell’XI secolo da Genovesi e Veneziani, erano abituati a cuocere in diverse concentrazioni i mosti d’uva, che definivano di volta in volta come "saba", "defrutum" e "caraenum". È facile immaginare che ben presto gli stessi latini abbiano visto prodotti delle più basse concentrazioni fermentare e, in un secondo momento, acetificare. Un primo riconoscimento "regale" della nobiltà di questo condimento e del suo apprezzamento anche tra i nobili arriva poco dopo l’anno Mille. Nel 1026 infatti Enrico III, duca di Franconia, in viaggio verso Roma per essere incoronato imperatore, chiede a Bonifacio III di Canossa, margravio di Toscana e padre della più celebre Matilde, di "quell’aceto tanto lodato (... che...) aveva udito farsi colà perfettissimo". Sebbene la parola "balsamico" non venga menzionata, l’importanza del prodotto è confermata dal fatto che Bonifacio gliene fece dono entro una botticella d’argento. Nel corso del Medioevo e, ancor più, dell’Età Moderna e Contemporanea, la pratica dell’aceto balsamico tradizionale è sempre rimasta circoscritta a un ristretto areale, che ha Modena come centro, ma si è sempre più diffusa a livello domestico in tantissimi solai e sottotetti, il luogo in cui va ospitata un’acetaia.

Si accennava poi al turismo che apprezza questo aceto. Maurizio Fini, Gran Maestro della Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale, che ha sede a Spilamberto, lo conferma: nel corso del 2023 oltre 8.000 ingressi sono stati registrati all’Acetaia Comunale di Modena, 7.000 invecele visite al Museo dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Spilamberto. "Numeri – commenta Fini – che sono tornati ai livelli pre-covid e che confermano l’interesse di italiani e stranieri verso il nostro aceto".