
Paolo Conti nella Galleria Viscardi di Riccione
Una vita vissuta in porta, prima tra i pali del Riccione, poi Roma, Fiorentina, Sampdoria e persino della Nazionale azzurra nel Mondiale argentino del 1978. Quella di Paolo Conti è la storia di un campione che ha fatto della passione e del divertimento una vera e propria professione, iniziata nei campetti della Perla verde negli anni ’60 e proseguita nelle cornici dei più grandi stadi d’Italia e del mondo.
Come ha iniziato a giocare a calcio?
"In maniera piuttosto casuale, figlia di altri tempi, che oggi non potrebbe più accadere. Nel ’68 al Riccione c’era un posto vacante in porta come riserva, in quel periodo il portiere in seconda era partito per fare il militare. Il mio compito era quello di coprire soltanto un’assenza, ma alla fine ho giocato ogni partita di quella stagione".
Chi ha creduto per primo in lei?
"L’allenatore di quel periodo. Si chiamava Diotallevi. Mi prese e mi mise in porta quando neanche io ci credevo".
Cos’era il calcio per lei all’epoca?
"Un divertimento, nulla di più. Un qualcosa da fare con gli amici dopo la scuola; non avrei mai immaginato prendesse la piega del professionismo".
Modena, Arezzo e poi la consacrazione con la Roma, che ricordi ha di quel periodo?
"Fu una grande esperienza di vita. Avevo vicini dei mostri sacri del calcio e soprattutto dei grandi amici. Ho vissuto anche la città e questa è stata una mia grande fortuna".
Com’era quel calcio?
"Era sicuramente un gioco diverso, non c’erano le conoscenze tecniche di oggi. Ora la preparazione è maggiore, ma ciò che manca è il senso di appartenenza alla maglia che una volta era d’obbligo. I calciatori diventavano dei veri e propri ambasciatori della squadra e della città".
Quindi cosa manca a questo calcio di oggi?
"Appunto il senso di appartenenza. Ora i calciatori non escono neanche più di casa per farsi un giro in città, non vivono la quotidianità dell’ambiente in cui sono, preferendo estraniarsi. I campioni di oggi sono estremamente soli".
Nel ’78 poi è partito per l’Argentina, cosa ricorda di quei Campionati del mondo?
"Ognuno di noi aveva una guardia del corpo personale. Partivamo verso un contesto particolare, quella nazione viveva sotto un regime militare e doveva dimostrare al mondo una sorta di normalità che in realtà non c’era. Abbiamo visto tante scene di tifosi manganellati della polizia, ma noi dovevamo giocare e quando sei in quei contesti pensi soltanto alla partita. Non c’era il tempo di avere un coinvolgimento politico".
Quali sono i calciatori più forti contro cui ha giocato?
"Sono veramente tanti, mi vengono in mente Riva, Prati, Rossi e Bontempi".
E Maradona?
"L’unica volta che l’ho affrontato ero in panchina".
Ha coltivato amicizie importanti in carriera?
"Ci sono compagni che ancora sento al telefono. Abbiamo condiviso tanto insieme e non solo dal punto di vista sportivo, ma anche da quello umano, nello spogliatoio nascevano rapporti profondi. Una cosa che manca al calcio di oggi è proprio questo e soprattutto gli insegnamenti che i giocatori più ‘anziani’ impartivano ai giovani".
Va mai allo stadio?
"Non spesso. Fa molto freddo e non è proprio il mio luogo ideale".
Ora finalmente si gode la sua Riccione?
"Ho smesso di fare il procuratore calcistico una decina di anni fa, viaggiavo di continuo e raramente tornavo a casa. Ora mi rilasso nella città che amo perché negli anni ho capito che offre una qualità di vita senza eguali".
Federico Tommasini