Forli, 28 maggio 2011 - «Perdere una persona che ami fa soffrire abbastanza. Il rancore non aggiunge altro che dolore inutile». Parole che pesano come macigni quelle pronunciate da Patrizia Piovaccari Giovagnoli, vedova di Pierluigi Giovagnoli, l’agente della Polstrada travolto e ucciso da un ubriaco otto anni fa a Riviera, nell’imolese. Era il 24 maggio del 2003. Giovagnoli, in sella sulla sua Guzzi, faceva da scorta ai ciclisti che partecipavano al Giro delle pesche nettarine. È un attimo: viene travolto da un furgone guidato da Domenico Ciarlitto, 46 anni e 333 gl di alcol nel sangue. In una giornata di primavera come tante, giù in una scarpata si spegneva la vita di un poliziotto. A casa, tre figli e una moglie che non avrebbero mai più rivisto il loro padre e compagno di vita.

Signora Giovagnoli, come ha accolto la notizia dell’arrivo di questa medaglia?
«É stata una sorpresa, l’ho saputo solo ieri (giovedì, ndr). È sempre un piacere vedere come i colleghi e i suoi conoscenti lo ricordino con stima e affetto. Mi sono stati accanto allora e lo sono oggi. Si resta sempre moglie di un poliziotto».

Cosa significa?
«È difficile da spiegare. Sento orgoglio, appartenenza. È morto in servizio, la cosa dovrebbe essere eroica. Ma certo non è questo quello a cui pensi quando accadono tragedie simili».
«Il sacrificio di mio marito? Purtroppo è stato inutile».

Anni fa fu lei a pronunciare queste parole. La pensa ancora così?
«Le leggi in materia di guida e ubriachezza si sono molto inasprite nel corso degli anni, e credo che questo lo si debba anche alla tenacia con la quale l’Asaps ha portato avanti certe battaglie. Certo, si cambia a piccoli passi. Ma non si possono affrontare certi temi solo dopo delle tragedie».

E allora cosa bisogna fare?
«Educare, educare, educare. Non arrendersi. Rivolgersi al mondo degli adulti e a quello dei giovani con percorsi scolastici efficaci. Sono misure che andrebbero prese, e al più presto. Non possiamo aspettare che le cose cambino con un tocco di bacchetta magica».

Tornando alla sua vicenda personale, a che punto è l’iter giudiziario che vede imputato Domenico Ciarlitto?
«È stato condannato e ha risposto ricorrendo in appello. Ma la data non è stata ancora fissata».

Nulla di fatto, insomma.
«Esatto. È l’aspetto più triste è stato affrontare il processo. La difesa ha dibattuto per ore sui centimetri, cercando di distribuire colpe che, per quanto mi riguarda, pendono in tutta evidenza da una parte sola. Ci si arrampicava sugli specchi pur di scucire qualche quattrino in meno (i familiari della vittima hanno ricevuto un risarcimento di 1 milione e 400mila euro, ndr)».

Non dev’essere stato facile guardarlo in faccia.
«E chi l’ha mai visto? Ciarlitto non si è mai presentato alle udienze. Credo che non bisognerebbe dare la possibilità di evitare di assumersi le proprie responsabilità. Non affrontarci è stato questo: evitare di prendere coscienza delle sue colpe».

Ma forse per lei sarà stato un sollievo non dover subire questo ennesimo supplizio.
«Le dico la verità: ogni tanto penso a quest’uomo. Come si sopravvive a una colpa del genere? Come dorme la notte? Ma un’idea di lui me la sono fatta lo stesso».

Cioè?
«Dei colleghi di mio marito nel 2006 fermarono un tizio evidentemente ubriaco e molesto. Lo identificarono e lì la sorpresa: era lui. Evidentemente non aveva cambiato abitudini».

Lei ha dovuto, invece.
«Fino a un certo punto: avevo i miei tre figli (oggi di 30, 19 e 13 anni, ndr). Un’ottima ragione per andare avanti. E il ricordo di mio marito, della sua forza, della sua gioia, del suo spirito goliardico: difficile pensare a lui con tristezza. Per questo è inutile serbare rancore».