Forlì, 10 marzo 2012 - NULLA resta dei tormenti, innominati. Dei momenti precedenti allo sparo. Nulla resta; se non la realtà attecchita in un attimo, un istante dopo lo sparo. Mancano dieci minuti alle 9 di ieri mattina. La pistola d’ordinanza spicca ora silente, vicina al corpo. Corpo tremante, dove ancora la vita, ferita, guizza tra i nervi. Luca Verdi, 44 anni, carabiniere in servizio alla stazione di Santa Sofia, sta sul pavimento del corpo di guardia. I colleghi lo scuotono. Luca è ancora vivo, la pistola è ancora calda, da lì è partito il colpo. Luca ha sparato, l’occhio scuro della canna dell’arma d’ordinanza ha puntato la tempia. La sua tempia. Tentato suicidio? Ufficialmente nessuno lo dice. Ma la realtà è questa.

L’ELICOTTERO del 118 atterra poco dopo le nove. Le pale si smarriscono nello smarrimento di un intero paese. Che sa già tutto. In dieci minuti Santa Sofia ammutolisce. Le auto dei carabinieri si susseguono, frenetiche. Il rumore di sirene e pneumatici scema oltre le curve, al di là del ponte sul Bidente, dove, in un edificio di mattoncini chiari, rettangolari, c’è la caserma dei carabinieri. Arrivano gli ufficiali. Uno dei primi è il capitano Flauret, comandante della Compagnia di Meldola, centro distrettuale delle stazioni della vallata. Da Bologna approda sull’Appennino l’auto con il generale che comanda la Legione dell’Emilia Romagna. Medici e infermieri non perdono tempo. Il codice di gravità è quello blu. Gradino superiore a quello rosso. Che solitamente è il più alto. Il codice blu però è ancora più grave. L’elicottero scantona obliquo sopra la neve avvizzita e sulle montagne infilzate da un vento sbocciato da un’ultima faglia d’inverno. I colleghi di Luca — dai generali di Bologna agli appuntati di Santa Sofia — sono sotto choc. L’Arma è ferita da quell’arma d’ordinanza. Quella di Luca. Che s’è sparato, alla tempia, in caserma, mentre lavorava. L’elicottero svanisce, il paese resta a domandarsi: «Possibile?». Ogni movimento quotidiano è mutato. Mutilato. Tutti conoscono Luca, in paese. E allora una donna si blocca, mentre spazza il cortile, e s’avvicina alla cancellata, raggiunta dalla vicina: «Hai saputo?».

Ieri mattina Luca è di piantone. Ha preso servizio alle sette. Come sempre. È lì al corpo di guardia. Sempre gentile. Sempre disponibile. A casa ha salutato la moglie Elena e la figlia di 4 anni. Tutto come sempre. La catena dei giorni che non prevede sbalzi. Fino allo sparo, voce di tormenti sconosciuti. Invisibili. Innominati. Medici e infermieri del 118 trasportano la barella quasi correndo. I colleghi osservano Luca, disteso, intubato, sparire nella pancia dell’elicottero. Il cui rumore di cuore, svanito nel tessuto nebuloso del cielo, dà il segnale del silenzio. Nessuno parla. Nessuno ha voglia di farlo. Silenzio, che è riserbo come da protocollo ma soprattutto è misura di sensibilità verso la moglie, verso quella bambina. La figlia di Luca.

D’ACCHITO, non esiste alcun nesso — alcun nesso evidente — tra il gesto di Luca e la realtà (non trovato alcun biglietto). Presagi di disagi? Inesistenti. Niente e nessuno — questo dicono gli appunti raccolti dalle varie fonti — poteva preconizzare un venerdì mattina come questo. Con un colpo di pistola che scuote l’onore della montagna, sopra il paese, come in un terremoto, paese ora distratto dalla sofferenza, dalla pena. Adesso è il tempo delle relazioni agli alti ufficiali e alla procura, al pm Filippo Santangelo. Ma qui non c’è bisogno di un’inchiesta. C’è bisogno solo che Luca riapra — al più presto — i suoi occhi.

di Maurizio Burnacci