«Non si poteva dire che c’era la mafia»

Lo studioso Enzo Ciconte: «Gli uomini di adesso stanno lì da 30 anni. Non si è fatto niente. Imprenditori reggiani hanno preferito rivolgersi a questi soggetti»

Lo studioso Enzo Ciconte

Lo studioso Enzo Ciconte

Reggio Emilia, 6 febbraio 2016 - Enzo Ciconte, storico della criminalità organizzata e studioso di riferimento per quel che riguarda la penetrazione della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: che idea si è fatto della lettera dal carcere di Pasquale Brescia (imputato ma ancora in attesa di giudizio nel processo Aemilia, ndr) al sindaco Vecchi?

«Mi pare la prosecuzione di un disegno emerso nei mesi scorsi. La ‘ndrangheta ha deciso di usare i mezzi di comunicazione per portare avanti una campagna mediatica. La lettera può inserirsi in questo solco. E’ una situazione singolare: la ‘ndrangheta a Reggio Emilia, e solo a Reggio Emilia, fa una polemica politica pubblica. In prima persona. Vogliono l’egemonia con ogni mezzo».

Il Ministro Alfano ha parlato di ‘possibile’ minaccia al sindaco: il contenuto costituisce un vero pericolo? E qual è il modo più giusto di rispondere?

«La minaccia nei confronti del sindaco Vecchi è chiarissima e su questo vale il giudizio espresso da prefetto e questore. In seconda battuta, a questa lettera si risponde con un attività politica libera e trasparente. Vede, oggi si paga uno scotto perché molti per anni hanno chiuso occhi, orecchie e bocca. Se si vuole fare un passo avanti, bisogna rendersi conto che il problema non è solo dei cutresi».

In che senso?

«E’ evidente che in questa vicenda hanno avuto un ruolo imprenditori reggiani, nati a Reggio da famiglie del luogo. Se si circoscrive il problema alla comunità cutrese, si sbaglia l’analisi e non si risolve il problema. Le propaggini della ‘ndrangheta a Reggio arrivano all’economia, al giornalismo, alla politica. C’è un grumo di problemi. E’ questa la complessità della ‘ndrangheta a Reggio Emilia».

I reggiani hanno molti freni nell’ammettere che sia un problema ‘reggiano’?

«Io che sono calabrese non sono mai stato indulgente con i miei conterranei responsabili di reati. Perché non dovrebbero farlo anche i reggiani?».

Domanda difficile…

«C’è un problema nel modo di vivere di questa città. Imprenditori reggiani hanno preferito rivolgersi a questi soggetti piuttosto che ad altri. Il problema è che la ‘ndrangheta il conto lo presenta sempre. Sempre».

Insomma la ‘ndrangheta è stata trattata in certi ambienti come una normale società di servizi?

«E’ esattamente così. Con una differenza: la ‘ndrangheta non si fa licenziare. Non è un taxi: una volta saliti, non si può scendere».

Come è stato possibile questo forte radicamento?

«Va dato grandissimo merito al prefetto Antonella De Miro che con le interdittive ha dato un enorme danno alle ‘ndrine. Ma prima lo Stato aveva fatto poco o nulla. Prima gli ‘ndranghetisti c’erano eccome. Gli uomini di adesso stanno lì da 30 anni. Hanno fato affari e costruito mezza Reggio. Va detto chiaramente: lo Stato in quanto tale dov’era? Un pezzo della magistratura dov’era, quando condannava per omicidio e narcotraffico ma non per mafia, perché a Reggio non si poteva dire che c’era la mafia?».

Il quadro è chiaro: qualcuno è arrivato tardi. Adesso che si fa?

«Per essere brutali: se lo Stato non mantiene il livello di intervento degli ultimi anni, avremo come risultato solo l’aver tolto un po’ di spazzatura. Ma la spazzatura ritorna».

Un ultimo passagio sulla lettera: quella missiva va letta o va rifiutata in toto per i suoi contenuti minacciosi?

«Non scherziamo: che c’è da nascondere? Che fai, la cestini? Si deve pubblicare: la commenti e dici che fa schifo. E’ come dire che non si devono fare i film sulla mafia perché rendono affascinanti i mafiosi. E’ un fatto che già esiste nella società. Dalle intercettazioni, personaggi emiliani, nati e cresciuti qua, rivelano una sorprendente fascinazione per il mafioso».