Morì in un incidente a 17 anni, il padre: "Nascosta la verità"

Filippo restò ucciso 23 anni fa. L'ombra delle corse clandestine

Una foto di Filippo Moroncelli

Una foto di Filippo Moroncelli

Rimini, 7 febbraio 2016 - Sono passati 23 anni da quando Filippo se n’è andato, ma suo padre è rimasto fermo alla notte del 2 maggio del 1993. Quando i carabinieri di Novafeltria lo avvertirono di correre in ospedale perchè il figlio, 17 anni, era rimasto ferito in un incidente in moto. Quando Domenico Moroncelli, 66 anni, di Talamello, arrivò in ospedale, Filippo era già morto. Gli dissero che aveva perso il controllo della moto e aveva invaso la corsia opposta, finendo contro un’auto. Ma lui sostiene invece che uno degli amici che era con il figlio quella sera gli confessò che stavano facendo una gara moto contro auto, e che per un tragico errore Filippo era stato urtato e spinto nella corsia opposta. Ma davanti agli inquirenti il ragazzo negò e diede una versione diversa. Da allora Domenico si batte perchè venga fuori quella che lui considera l’unica verità.

Cosa accadde quella notte?

«Mi chiamarono al telefono dicendo che Filippo aveva avuto un incidente alla curva di Borgnano. Sono corso all’ospedale, c’era una gran confusione e non volevano farmi entrare nella stanza dove si trovava mio figlio. Nessuno voleva dirmi niente. Ricordo che ho aperto la porta con una botta tremenda e ho visto Filippo. Era massacrato, ed era già morto».

Poi cosa accadde?

«Fuori ad aspettare c’erano gli amici di mio figlio che piangevano. Quella sera tornavano tutti da una festa che c’era stata a San Marino, erano in cinque. Quattro viaggiavano su un’auto, una Fiat Uno, mentre Filippo era sulla sua moto. Uno di loro mi ha buttato le braccia al collo e continuava a ripetere ‘Mi perdoni, mi perdoni’ e piangeva. Gli risposi che l’avrei perdonato se avesse raccontato la verità. E allora lui mi disse che mentre tornavano a casa dalla festa avevano fatto uno ‘strappo’. Una gara di accellerazione tra la macchina e la moto, e si erano toccati. Questo aveva spinto Filippo sulla corsia opposta, mentre arrivava l’altra macchina».

Come andò l’inchiesta?

«Qualcuno disse a quel ragazzo che se avesse fatto una dichiarazione del genere sarebbe stato arrestato, e il giorno dopo, quando venne convocato in caserma diede una versione completamente diversa dell’incidente. Non parlò di quella gara maledetta. Io cercai di far venire fuori la verità, ma non ci fu niente da fare e la colpa dell’incidente venne data tutta a mio figlio. Lui era quello che era finito addosso all’altro, e non c’erano prove che quello che sostenevo io fosse vero. L’unico colpevole rimase sempre e solo Filippo».

A quel punto cosa fece?

«Ero frastornato, distrutto, ma non volevo rassegnarmi al fatto che la verità non fosse venuta fuori, che tutto si fosse chiuso così. Ho preso un sacco di avvocati e speso un bel po’ di soldi, ma quella verità non è ancora saltata fuori».

Dopo 23 anni non è forse è venuto il momento di rassegnarsi a come sono andate le cose?

«Mai. Per un figlio non ci rassegna mai. Filippo era un ragazzo meraviglioso, frequentava l’istituto professionale di Novafeltria, voleva fare il meccanico e adorava la sua moto. Ce l’ho ancora quella moto, ci sono i segni lasciati dall’incidente, ho ancora il casco e tutte le sue cose, così come le ha lasciate 23 anni fa. Ogni mattina mi sveglio alle 4, poi vado al cimitero a trovarlo. Con la morte di Filippo ho perso tutto, la mia vita si è fermata. Lo so che qualsiasi reato sia stato commesso è ormai caduto in prescrizione, ma io continuo a battermi perchè venga fuori la verità su quella notte, non riesco a pensare ad altro».

Ha mai provato a parlare con l’amico di Filippo che la sera dell’incidente gli fece quella confessione?

«No, nè lui ha mai più parlato cone me. Però in questi anni mi sono arrivate diverse telefonate, e alcune erano anonime. Mi hanno detto di andare avanti, di andare ‘a fondo’.