VALERIO BARONCINI
Cronaca

Coronavirus Bologna, il reportage. "Gli occhi si aprono e pensi, allora si guarisce"

Bolle anti contagio e medici attivi 24 ore: viaggio nella Terapia intensiva del padiglione 23, con il responsabile Massimo Baiocchi

Il responsabile della Terapia intensiva Massimo Baiocchi (foto Paolo Righi)

Il responsabile della Terapia intensiva Massimo Baiocchi (foto Paolo Righi)

Bologna, 20 marzo 2020 - Ci sono diciotto persone, molte prone, sui letti oltre il vetro. Sono attaccate alle macchine: sembra che dormano, ma in una posizione irreale. Alcune sono in coma, altre invece lottano contro una polmonite di sangue e muco particolarmente aggressiva: stando a pancia in giù si favorisce la ventilazione delle zone basse dei polmoni, la guerra al Covid-19 è lunga, dolorosa, solitaria e silenziosa. Vicini a loro, protetti dagli ‘scafandri’, un plotoncino di medici e infermieri, tutti giovani, tutti determinati a farli rialzare. Ci sono già riusciti molte volte. Qui, nel padiglione 23 del polo cardio-toraco-vascolare al Policlinico Sant’Orsola, una volta si dava assistenza di terapia intensiva a chi entrava nella fase post-operatoria per questioni toraciche o cardiache. Adesso è la casa della lotta al maledetto Coronavirus che ha cambiato il nostro mondo.

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IL DOC  "Il doc è dentro, fra venti minuti esce", dice un’infermiera. Eccolo, il doc: ha il volto concentrato e sereno di Massimo Baiocchi, 47 anni e voce gentile, responsabile della Terapia intensiva del polo cardio-toraco-vascolare. "Come va in queste ore? Beh, è da un po’ di giorni che facciamo 12-14 ore al giorno in ospedale, siamo provati, ma carichi", ragiona. Quando i primi pazienti da fuori regione sono arrivati "è stata dura, erano tutti in coma farmacologico, intubati, ventilati, era davvero angosciante", ma poi "quando abbiamo stubato i primi è stata una grande iniezione di forza. Abbiamo capito che c’era luce in fondo al tunnel".

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E alla parola un po’ tecnica "stubato", Baiocchi si illumina e spalanca un sorriso: "È la gioia più grande, la soddisfazione più grande. Quegli occhi che si aprono sono quelli che ci danno la forza di andare avanti, perché ti fanno capire che dal Coronavirus si guarisce". Da qui, l’ultimo avamposto della lotta al killer venuto dalla Cina, parte il messaggio di speranza più forte. "Dal virus si guarisce, ma bisogna seguire le regole per ridurre il contagio", ricorda ancora Baiocchi. In mano ha i tamponi, sui comodini ci sono mascherine, schermi, respiratori. Ma non trapela paura: "A volte ci comportiamo come per esorcizzare la malattia, forse speriamo di essere immuni, ma abbiamo capito che proteggendoci con i dispositivi individuali possiamo curare tutti senza rischiare", dice ancora il medico. Qualcuno, quando arrivarono i primi malati, piangeva: "Non voglio andarci". Adesso la squadra è in azione h 24.

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LA TRASFORMAZIONE

Il Covid-19 s’è abbattuto come un uragano e in poco tempo l’attività chirurgica con annessi e connessi si è bloccata e, così, il reparto è stato riconvertito. Sono 18 i posti letto di questa terapia intensiva di ‘frontiera’, altri sono al padiglione 25 appena riattivato dove a coordinare l’attività c’è Guido Frascaroli, richiamato dalla pensione. Strumenti, letti, respiratori, monitor: in pochi giorni è nato un ospedale dentro l’ospedale. Proprio come la vecchia terapia intensiva cardiochirurgica, ‘resuscitata’ al 25 nei giorni neri dell’emergenza e in previsione di quello che potrebbe anche essere un iper afflusso difficile da gestire.

LE BOLLE

Torniamo al 23. Ci sono tre open space , ognuno con cinque posti letto, e altre stanze. Lì stanno i malati e queste aree sono a pressione negativa: l’aria, circolando con ricambi continui, evita a ogni apertura della porta della stanza che l’aria interna possa contaminare quella esterna, evitando così il passaggio di patogeni potenzialmente contagianti, come il virus, nelle zone ‘pulite’. "Ma abbiamo deciso di creare delle bolle di passaggio fra le aree contaminate e quelle pulite – continua Baiocchi –. Ci si veste prima, poi si entra nella bolla e si accede agli spazi con i pazienti. Una volta esaurito il lavoro, si esce nella bolla e ci si sveste, così da tornare puliti nello spazio generale", Le bolle hanno un’anima di acciaio e alluminio, hanno porte di cellophane o plastica che si chiudono con il velcro. "Abbiamo tutti i dispositivi di protezione individuale, anche quelli più estremi – spiega Baiocchi –. La cosa che spesso non si sa è che la fase davvero pericolosa è quella della svestizione. per questo la facciamo sempre in due, con un collega che guarda e aiuta l’altro".

I SACRIFICI C’è luce nel padiglione 23, una luce abbacinante. Finestroni, niente tende pesanti, e la plastica delle bolle che riflette tutto. E oblò che, dalla zona pulita, fanno vedere tutto della zona contaminata. I turni qui non hanno più orario e tutti dovremmo ringraziare i ‘guardiani’ del padiglione 23. "Abito vicino all’ospedale, così molti colleghi, per noi è la norma – dice Baiocchi –. Ormai tutti abbiamo un po’ abbandonato la vecchia vita". Il ‘doc’ lo dice timidamente, ma fa la spesa ogni sei giorni "e il frigo è sempre vuoto, adesso è chiuso tutto la sera". Senza contare i figli, che non vede da quindici giorni: "Ho paura di contagiarli".

I DISCORSI Adesso è il momento di entrare nelle bolle. Qualcuno va dritto, senza nemmeno fiatare: dopo un po’ vai col pilota automatico. "Più spesso però ci diamo coraggio – dice Baiocchi –. Alcuni all’inizio erano impauriti, è umano, abbiamo tutti paura, poi però si entra. È il tuo dovere". Le parole ripetono le sequenze della vestizione: le vesti, le maschere, i respiratori, tutto viene attivato. È il momento di entrare: e dalla bolla spunta solo un’ombra, annegata in una luce che qui, al padiglione 23 del Sant’Orsola, sa tanto più di speranza che di morte.  

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