"Omicidio Atika, nessuna premeditazione"

La 32enne fu stragolata e bruciata dall’ex compagno. La Cassazione ha stabilito un nuovo processo d’Appello limitatamente all’aggravante .

Nella psiche diabolica di M’Hamed Chamekh, prima di dare sfogo all’orrore nei confronti della ex convivente Atika Gharib, non vi sarebbe stato il "radicamento e la persistenza costante", per un determinato "lasso di tempo", del "proposito omicida". Del quale "sono sintomi il previo studio delle occasioni e dell’opportunità per l’attuazione, un’adeguata organizzazione di mezzi e la predisposizione delle modalità esecutive". Nessuna premeditazione, insomma, secondo il ragionamento dei giudici della Suprema Corte di Cassazione che, in 11 pagine, rimandano a un nuovo processo davanti all’Assise d’Appello la quale sarà chiamata a pronunciarsi "limitatamente" sull’aggravante contestata all’imputato nei primi due gradi di giudizio. Condannato all’ergastolo, con isolamento diurno per quattro mesi, per omicidio pluriaggravato di Atika, con connessi reati – in continuazione – di distruzione di cadavere, incendio, lesioni aggravate e minacce.

Castello d’Argile: era settembre 2019 quando Atika Gharib, mamma marocchina di 32 anni, venne strangolata e poi data alle fiamme, con uno straccio intriso di liquido infiammabile infilato in gola da M’hamed Chamekh, 43 anni, suo connazionale con cui aveva avuto una relazione, troncata dalla donna dopo che lui aveva molestato la figlia. Il corpo era stato trovato carbonizzato due giorni dopo l’omicidio tra le macerie di un casolare. L’uomo che dopo l’omicidio aveva tentato la fuga in Francia, era stato arrestato su un treno. Testimonianze, immagini riprese da due diverse telecamere, oltre alla confessione dell’imputato intercettata, non lasciarono dubbi sulla mattanza commessa, aggravata – come stabilito da Tribunale e Corte – dai futili motivi e soprattutto dalla premeditazione.

Un aspetto, quest’ultimo, rigettato dall’avvocato di Chamekh, detenuto in una Rems per una patologia psichiatrica. Il legale ha sempre parlato di una "assoluta incompatibilità della premeditazione con il comportamento delle parti, lo stato dei luoghi, i tabulati telefonici e la grave e conclamata patologia psichiatrica" del suo assistito. A partire dal casolare e al suo stato di abbandono, nel quale Atika sarebbe stata attirata con l’inganno per riavere i suoi documenti, ritenuto dai giudici "un luogo adatto all’azione omicidiaria e sintomatico di programmazione criminosa". Per l’avvocato, invece, altro non sarebbe che "l’abitazione dell’imputato e dunque non frutto di una deliberata scelta". Poi il parcheggio dove Atika lasciò la macchina, ritenuto dalla difesa "ininfluente, la cui distanza dal casolare è stata erroneamente calcolata per eccesso"; infine la "consapevolezza" della vittima di accompagnare Chamekh "nella sua abitazione, sicché – continua l’atto – non vi sono elementi per ritenere che l’imputato avesse ordito una trappola". Una tesi che "confliggerebbe con la condotta serbata successivamente al fatto".

Per la Cassazione, ora, non sarebbe emerso in "modo chiaro e tale da soddisfare il criterio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio, il preciso momento in cui, nella ricostruzione del fatto, doveva ritenersi acclarata la decisione in capo al soggetto agente del proposito omicidiario". Insomma, per i giudici della Prima sezione della Suprema Corte, "l’aggravante della premeditazione, che postula radicamento e persistenza costante per un apprezzabile lasso di tempo" nella mente dell’omicida, "studio, organizzazione e predisposizione delle modalità", verrebbe a mancare. Decisione che, comunque, non può ridurre tutto l’orrore commesso. Se ne riparlerà davanti a un nuovo processo d’Appello.

Nicola Bianchi

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