Tocci: "Ho quattro proiettili dei Savi in corpo"

L’ex militare e due colleghi colpiti quattro mesi dopo il Pilastro: "Stessa dinamica, volevano ammazzarci. La banda fu coperta"

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di Nicola Bianchi

La dinamica fu la stessa del Pilastro, le scariche dei fucili identiche. Il finale, per fortuna, diverso anche se le ferite nel profondo dell’anima non si rimargineranno mai. "E da quel giorno i Savi hanno condannato noi all’ergastolo". E’ la notte del 30 aprile del 1991, quattro mesi dopo la strage del Pilastro: l’appuntato Vito Tocci è a capo della pattuglia della Stazione di Rimini Miramare che sta facendo servizio di notte, dall’1 alle 7. Mino De Nittis è al volante, l’ausiliario Marco Madama siede dietro. Hanno appena imboccato il sottopasso di Marebello, quando la prima scarica di un fucile a canne mozze sfonda il lunotto posteriore della Ritmo blu dei carabinieri e investe i tre militari.

In quel momento pensò subito al Pilastro, non è vero?

"Esattamente – racconta Tocci, origini pescaresi, all’epoca 27 anni, oggi in congedo e con quattro dei sette proiettili dei Savi ancora ’trattenuti’ in corpo – e ordinai al conducente di accelerare. Non eravamo in condizioni di difenderci e saremmo morti tutti. Il ricordo di Mitilini, Moneta e Stefanini è sempre vivo dentro di me, resteranno per sempre grandi fratelli e quella notte di aprile anche io potevo fare la loro stessa fine".

Lei fu promotore e organizzatore dell’associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca. Che obiettivi si fissò?

"Arrivare alla vera verità e a un processo unico, non frammentato. Oggi purtroppo permangono ancora molti lati oscuri degli orrori commessi dalla banda. Oggi tanti familiari pretendono e lottano per arrivare fino in fondo".

Sarà tra i firmatari dell’esposto prossimo al deposito in Procura?

"Sì, insieme a tante altre persone. Quell’atto dovrà servire a squarciare la nebbia fittissima".

Parlava di punti oscuri, su cosa si baserà il nuovo atto?

"Innanzitutto sui fatti del Pilastro. Quel 4 gennaio 1991, su ordine del questore, doveva esserci un servizio di vigilanza fissa davanti alle scuole Romagnoli, dopo alcuni episodi di intolleranza razzista verso cittadini extracomunitari. Perché allora la pattuglia dei carabinieri non era nel punto indicato?".

C’è poi il foglio di servizio mai trovato.

"Esattamente. Chi e perché lo fece sparire? Poi ci sono i fatti di Castelmaggiore e la condanna per gli inganni del brigadiere Domenico Macauda. Dopo l’introduzione del reato di depistaggio, perché quest’ultimo non viene richiamato e risentito. E non è finita".

Prego.

"L’agguato all’armeria di via Volturno fatto ad un orario molto strano, tra le 11 e le 12".

Dietro alla Uno Bianca, dunque, non vi sarebbe solo la targa per usare le parole di Fabio Savi...

"Dietro alla targa c’è molto altro. Roberto Savi, davanti al pm, parlò di un coinvolgimento dei carabinieri (Poi se volete... ve lo dico che i carabinieri c’eran di mezzo...). Mi chiedo, si indagò anche in quella direzione? Si rivedano tutti i delitti rivendicati dalla Falange Armata e si valutino collegamenti con quelli commessi dalla banda dei Savi. Per me la banda della Uno Bianca non esiste, bensì esiste qualcosa di molto più grande".

Scusi, in che senso?

"I Savi e gli altri affiliati costituivano un gruppo di persone con obiettivi ben precisi. Un commando organizzato e soprattutto aiutato".

E coperto...

"Che godeva di coperture che ancora oggi non sono emerse. I Savi sapevano chi rapinare, chi uccidere, chi minacciare. I loro erano blitz studiati e ben precisi, non certo casuali per accaparrarsi qualche soldo e armi".

Quindi anche quello contro di voi fu un agguato studiato e preciso?

"Certo. Noi non volevamo fermarli ma loro iniziarono a spararci addosso con la chiara intenzione di ucciderci. Fummo bersagliati da colpi partiti da fucili a canne mozze calibro 12".

In una vecchia intervista, affermò: "Ci salvammo anche perché la banda fece un errore".

"Si avvicinò troppo alla nostra macchina di servizio. La rosa dei proiettili dei loro fucili non si allargò e andò a colpire prima il parabrezza del lunotto posteriore e poi il parabrezza davanti. Tutti i proiettili, prima di ’aprirsi’, attraversarono così dritti la parte centrale dell’abitacolo e questo ci salvò. Fu un miracolo".

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