"Fortitudo, 22 punti per sfiorare la Korac"

Giovanni Biondi e il basket "McMillen mi lasciò in panchina nel primo tempo. Nella ripresa mi scatenai spaventando la Jugoplastika". .

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di Alessandro Gallo

E’ nato a Genova l’8 gennaio 1954. Seguendo l’attività professionale di papà Guglielmo si ritrovò a Napoli e lì cominciò a giocare a basket.

Il suo nome è Giovanni Biondi e, tra il 1972 e il 1979 ha giocato per sette stagioni in Fortitudo: 195 presenze e 1.291 punti. Giocatore e capitano della Fortitudo anche se, nei primi anni Settanta, si scatena un derby con la Virtus per averlo in squadra. Giovanni, due metri e mano morbida, è uno dei migliori prospetti del 1954. La Partenope non vuole cederlo, se non in prestito. La Virtus dice no, la Fortitudo sì e la famiglia, non solo papà Guglielmo ma anche mamma Anna Maria si spostano a Bologna. Dove Giovanni, insieme con i canestri, mette a frutto le qualità di studente e si laurea in medicina.

"Il primo allenatore che ho avuto – dice – è stato Alberto Bucci. Un personaggio fuori dal comune. E’ lui che mi ha cambiato".

Comincia in punta di piedi, come decimo. Nelle trasferte è compagno di stanza del Barone Schull. Pensando che l’allenatore è Beppe Lamberti, Giovanni capisce presto cos’è la Fortitudo.

"Il Barone era unico – insiste –. Spesso si portava dietro la chitarra".

Dopo Lamberti, Guerrieri e Nikolic. "Ottimi allenatori, buone squadre – commenta –. Ma quanta sfortuna. Con Guerrieri ci fu il colpo all’occhio a McGregor. Con il Professore l’infortunio a De Vries. Eravamo come in una pentola a pressione. Così quando arrivò McMillen in panchina ci sentimmo liberi".

Liberi di correre, con quello che, in Fortitudo, viene ancora considerato come il furto di Genova.

"La finale di Korac. Ci fu anche qualche discussione con McMillen. Fu il primo a introdurre rotazioni di tutti i dieci giocatori, ma non eravamo ancora pronti a recepire il messaggio. Così qualche volta mi capitò di giocare poco. A Genova, contro la Jugoplastika Spalato, rimasi a guardare per il primo tempo. Poi nel secondo ne segnai 22. E John a dire che mi aveva fatto riposare contro Varese per avermi al top. Non era vero niente".

Anni eroici, un solo vero rimpianto, Genova a parte.

"Non ho mai capito perché quella squadra fu smantellata. Non ho compreso perché fu lasciato andar via Fessor Leonard, che era fortissimo. Potendo riscrivere la storia, forse, Fessor sarebbe ancora con noi".

Già, perché Giovanni fa parte di uno zoccolo duro Fortitudo che si ritrova appena può. Lui, Casanova, Picchio Orlandi, Arrigoni, Benelli.

"Arrigoni era come un fratello maggiore. Ma io pendevo dalle labbra di Picchio. Facevo tutto quello che diceva Orlandi".

Giocatore moderno, piuttosto insolito. "Ho cominciato come ala, mi sono ritrovato guardia. E di guardie di 2 metri ce n’erano davvero poche. Forse Zanatta. Tiravo da tre. Solo che il tiro da tre non c’era ancora".

Dici il derby, riaffiorano mille ricordi.

"Era la partita dei tifosi. La sentivamo anche noi, ma non c’era astio. Poi Caglieris aveva giocato con me e avevo un’ammirazione per Gianni Bertolotti. E poi Renato Villalta. In campo eravamo avversari, rivali. Ma fuori la musica era diversa".

Abitava dalle parti di via Trento Trieste. Non era un animale notturno, però.

"Anche perché c’era lo studio. Non frequentavo discoteche o locali del genere. Quando si usciva si andava magari da Wolf – c’è ancora? – in via Massarenti, per mangiare un panino. O andavamo all’osteria da Vito, dove si poteva trovare anche Francesco Guccini".

Sette stagioni in Fortitudo, poi il ritorno in Campania, con poca fortuna.

"Andai a Caserta, ma alla terza giornata mi feci male piuttosto seriamente alla caviglia destra. Praticamente la carriera finita. Sono rimasto ancora un po’, ho ritrovato come allenatore proprio John McMillen. Ma la mia parentesi, ormai si era chiusa".

Se ne apriva una molto più importante, legata agli studi in medicina e a quella specializzazione che lo porta tuttora in giro per il mondo, tra un congresso e l’altro: la Ortognatodonzia.

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