I messaggi dal fronte del dolore

Non chiamateci eroi, dicono in un coro virtuale, silenzioso, nella tensione di questi giorni che non finiscono mai. Siamo persone che nell’emergenza fanno il proprio dovere, è il pensiero che si legge nel loro sguardo senza sorriso. E per tutti il giorno più facile è sempre ieri. Sono i medici, gli infermieri e gli operatori di 118 e reparti impegnati contro il nemico che non si vede, il maledetto virus cinese. È stravolta la nostra esistenza, è stravolta anche la loro. Al tormento dei camici bianchi, che assistono centinaia di vite in bilico, si aggiunge un ruolo che non si impara all’università. Devono improvvisarsi ambasciatori del dolore, messaggeri della pietas che tiene uniti in un filo di speranza familiari e malati. Sono loro, gli operatori sanitari l’unico filo che mette in comunicazione gli uni con gli altri. Nell’articolo qui a fianco raccontiamo la storia di una dottoressa che ha letto la lettera di speranza di una figlia al papà ricoverato (grave) che non vede da chissà quanto. Non ha pianto, la dottoressa mentre leggeva il messaggio a quel papà con gli occhi spenti, ma ha pianto mentre lo raccontava al cronista. Vengono in mente i soldati che tornati in licenza portavano un saluto alla famiglia dei commilitoni rimasti in prima linea. Chi finisce in ospedale, soprattutto i malati gravi, chiude con gli affetti, non vede più il sorriso di un familiare che dà forza, non sente la voce di un fratello, di un figlio, di una moglie. Isolamento totale. Medici e infermieri hanno imparato sul campo un mestiere nuovo. Ai pazienti leggono messaggi, lettere, riportano le parola di incoraggiamento di un whatsApp, di un sms. Idem ai familiari che al telefono chiedono informazioni. Nel caos di questi giorni sanno che fa parte della terapia. Rispondono sempre, anche dopo 12 ore filate di lavoro. Forse non sono eroi, ma meritano una medaglia d’oro collettiva.