La morte di Forlani, il governo proclama il lutto nazionale per l’ex leader Dc

Lunedì a Roma i funerali di Stato dell’ex presidente del Consiglio. Il ricordo di Casini: "Mi insegnò che il potere è un’illusione ottica"

Arnaldo Forlani, morto a 97 anni, in una foto d’archivio con Pier Ferdinando Casini

Arnaldo Forlani, morto a 97 anni, in una foto d’archivio con Pier Ferdinando Casini

Roma, 8 luglio 2023 – Dopo la scomparsa dell’ex presidente del Consiglio Arnaldo Forlani, morto a 97 anni, Palazzo Chigi ha disposto il lutto nazionale: da oggi fino a lunedì 10, giorno dei funerali di Stato nella basilica dei Santi Pietro e Paolo a Roma, saranno esposte a mezz’asta le bandiere italiana e Ue sugli edifici pubblici e le sedi di ambasciate e consolati italiani all’estero.

Di seguito riportiamo un ricordo di Pier Ferdinando Casini tratto dal suo libro C’era una volta la politica.

Da Arnaldo Forlani ho capito come l’irrequietezza e l’eccessivo attivismo rischino di essere controproducenti. Per molti era un politico indolente. Per chi lo ha conosciuto bene, era invece un politico capace di riflettere e ragionare prima di agire. La sua flemma era espressione del distacco da un dinamismo frenetico fine a se stesso che le persone intelligenti non devono coltivare e che il più delle volte si rivela dannoso. Con gli anni ho capito quanto autentico fosse questo distacco.

Sono tanti gli episodi e gli aneddoti che potrei raccontare. Siamo nel 1992, durante l’elezione del Presidente della Repubblica, quella che, dopo la strage di Capaci, porterà il 25 maggio all’elezione di Oscar Luigi Scalfaro. Diversi giorni prima la Dc candida Forlani, d’accordo con i socialisti, i liberali, socialdemocratici e i repubblicani di Giovanni Spadolini. Il mio collega Gianfranco Fini, già segretario Msi, dichiarò che sarebbero stati disposti a votarlo in cambio di un riconoscimento politico alla destra. Ma Forlani fu irremovibile: "Non lo farò mai!". E questo nonostante fosse chiaro a tutti che, nelle stesse ore, Giulio Andreotti si stava attivando per attirare a sé i voti del Msi. Episodio emblematico della sua coerenza e linearità.

Nella votazione del 16 maggio a Forlani mancarono 29 voti per essere eletto. Era risaputo che i franchi tiratori erano gli andreottiani. I voti non erano sufficienti e, nell’imbarazzo generale, qualcuno si alzò dicendo: "Arnaldo, ti rivoteremo domani e ce la farai!".

E lui con l’accento marchigiano rispose: "Domani? Ma domani è un altro giorno. Io ho già dato!".

A quel punto, si rivolse a me chiedendomi di accompagnarlo a casa. Abitava all’Eur e, durante il tragitto in auto, cominciò a divagare sull’Inter di cui era tifoso. Il viaggio era interminabile perché si andava a passo d’uomo come sua abitudine e il silenzio era spettrale. Arrivammo nel suo giardino e timidamente domandai: "Presidente, allora domani ritentiamo?".

E lui: "Pier Ferdinando, ricordati: nella vita c’è un inizio e una fine. E stavolta è finita. Solo con gli anni capirai che il potere è un’illusione ottica!". Mi salutò sorridendo mentre giocava col suo cane lupo. Per lui andava bene così.

Un altro ricordo è legato al drammatico interrogatorio ai tempi di Tangentopoli con Antonio Di Pietro. Forlani sembrava essere messo alle corde dall’incalzare del pm. Aveva la bava alla bocca e i riflessi ritardati.

In realtà stava scontando l’effetto delle medicine che aveva preso la mattina, perché non si era sentito bene. Subì una condanna per finanziamento illecito nel processo Enimont.

Ne fu umiliato. Però ha accettato tutto, con un decoro e una dignità che gli fanno onore. Si dimise da tutte le cariche e non apparve più in manifestazioni pubbliche, ritirandosi nella sua casa di Pesaro. Io ho continuato per anni a vederlo in privato e ho maturato un’amicizia personale: una persona perbene che certamente non si è servita della politica, ma l’ha servita.

Forlani è stato più di ogni altro fermamente convinto dei rapporti fra la Dc, i partiti laici e il Psi. In particolare ha svolto il ruolo di cerniera fondamentale per la governabilità del Paese. Eppure aveva anche rapporti di stima e di amicizia con tanti esponenti del Pci. Un’eredità di quei tempi: la capacità di saper distinguere gli scontri politici dai rapporti personali.

La classe dirigente della Prima Repubblica sapeva contrapporsi e rispettarsi allo stesso tempo.