Ogni qualvolta apro un giornale, sia cartaceo sia online, mi prende l’ansia di trovare l’ennesima ragazza trucidata. In tutta franchezza non ricordo un periodo caratterizzato da una frequenza così densa di donne assassinate per motivi che non esito a definire futili e stupidi. Mi pare che il valore sacro della vita sia completamente accantonato se non dimenticato, e si affermi solo un maschile e autoreferenziale egocentrismo narcisistico. Sarà perché appartengo a una generazione ormai datata ma mi viene inevitabile, direi spontaneo, il raffronto con quello che ai tempi della mia adolescenza era il rapporto con le ragazze e l’universo femminile in sé. Un territorio affascinante, misterioso, verso cui si provava insieme sentimenti d’attrazione e paura; sopra tutto, almeno per me, una timidezza ineludibile. Si giocava di sguardi, atteggiamenti dissimulatori, imbarazzi, goffe avance.
Ci si sentiva brutti, sgraziati, pieni zeppi di difetti che parevano precludere qualsiasi afflato amoroso. Perché erano amori sinceri, a volte non ricambiati, a volte platonici; erano sospiri, sussulti, bigliettini, poesie; era sentirsi improvvisamente vulnerabili e ridicoli assieme. E quando, per oscure alchimie, avveniva il miracolo, s’esplodeva in romanticismi e tenerezze. Ricordo ancora, s’era d’estate, questa ragazza conosciuta attraverso amicizie comuni, l’invito a uscire insieme mentre il cuore correva al galoppo. S’andava allora a un dancing all’aperto di Marina nell’attesa della mezzanotte, quando ai balli da tarantolati subentravano i lenti: i pezzi dei Camaleonti, Demis Roussos e Patty Pravo e, finalmente, si poteva cingere d’un casto abbraccio il sospirato bene, sentirne la pelle, il calore, il profumo. Non si sapeva ballare e spesso si schiacciava la scarpetta della partner, ma che importava? C’era quella immensamente desiderata vicinanza e intimità, c’era la possibilità di sussurrarle all’orecchio frasi che dovevano essere memorabili e sovente risultavano banali se non infantili. Eppure, in tutto questo caotico comportamento alla Woody Allen, in questo timore di farci la figura “d’é quaiôn” c’era la genuina meraviglia dell’amore che s’esprimeva sì nel desiderio, ma temperato sempre dal rispetto. Non esistevano i cellulari e la loro onnipresente, distruttiva invadenza social, sicché il “tempo delle mele” coltivava lo struggimento e, soprattutto, educava all’affettività.