Grimilde, la Corte in questura per la sentenza

Come per Aemilia nel 2018, giudici blindati per la camera di consiglio. Concluse ieri le repliche dei 16 imputati nel processo per mafia

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di Alessandra Codeluppi

Da ieri a mezzogiorno in punto, la Corte davanti alla quale si è svolto il processo di ‘ndrangheta ‘Grimilde’ con rito ordinario, si è ritirata in questura per la camera di consiglio. Come fecero, nel 2018, anche i giudici del maxi processo ‘Aemilia’. Dopo due anni di udienze, la presidente del collegio giudicante Donatella Bove e i colleghi Silvia Guareschi e Matteo Gambarati sono ora blindati nella caserma di via Dante, da cui usciranno per emettere la sentenza a carico di sedici imputati. Al centro del procedimento, con epicentro Brescello, vi sono i presunti fatti di mafia addebitati al 62enne Francesco Grande Aracri, al figlio 32enne Paolo Grande Aracri, entrambi accusati di 416 bis, e a chi avrebbe collaborato con loro. Per Francesco, fratello del boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, il pm della Dda Beatrice Ronchi ha chiesto 30 anni di reclusione, mentre per Paolo 16 anni e mezzo. L’altro figlio 43enne Salvatore Grande Aracri è stato condannato nel filone di ‘Grimilde’ in abbreviato, in Appello, a 14 anni e 4 mesi per mafia. Ieri il padre Francesco ha reso spontanee dichiarazioni: "Io sono figlio di verità e di giustizia. Il pm Ronchi non mi ha mai trovato con le mani nella marmellata". Per poi soffermarsi sui 150mila euro immessi nell’Immobiliare Santa Maria: "Ha ragione il pm quando dice che i soldi li hanno messi insieme tre persone. La cifra coincide con la vendita delle villette in via Breda Vignazzi a Brescello". Secondo il pm, però, quei soldi erano di provenienza ignota. Ha difeso anche le trasferte da lui fatte a Scarazze di Crotone, quando il fratello Nicolino uscì dal carcere: "Andai solo a discutere l’eredità di mio padre". In fase di repliche, il suo avvocato difensore Antonio Piccolo ha cercato di smontare la tesi del pm secondo cui Grande Aracri "è il vertice della ‘ndrangheta in Emilia". "Non c’è alcuna prova – sostiene – che per operare si dovesse passare da lui. Se poi vogliamo condannarlo per il suo cognome...". Rifacendosi alla truffa ai danni del Ministero da oltre due milioni, soldi finiti sui conti dell’azienda di Cadelbosco di Gaetano e Domenico Oppido – padre e figlio imputati – Piccolo rimarca: "È descritto come un grosso affare per la consorteria, ma Grande Aracri e i figli non presero un centesimo".

Ha replicato al pm anche l’avvocato Pablo De Luca per gli imputati Antonio Rizzo di Cadelbosco, Domenico Brugnano e Gregorio Barberio di Reggio, rimarcando che in abbreviato per i reati in cui sono coimputati è stata tolta l’aggravante mafiosa. Sull’usura verso una coppia di imprenditori di Cadelbosco si sono poi soffermati gli avvocati Claudio Mignone per Luigi Cagossi e gli avvocati Chiara Carletti e Vincenzo Belli che assistono Omar Costi: per i due imputati il pm ha chiesto 9 anni. Sull’episodio, addebitato anche ad Antonio Silipo in abbreviato, le difese accusano la Dda di averlo contestato in ritardo. Belli rimarca un paradosso: "La moglie dell’imprenditore si è rivolta al fondo antiusura, ma la sua richiesta è stata rigettata perché condannata per bancarotta fraudolenta". La donna, parte offesa in ‘Grimilde’, è stata condannata in un altro processo per aver distratto sei camion: secondo il pm non riusciva a far fronte allo strozzinaggio.