Con una cena iniziò l’inchiesta che colpì la ’ndrangheta in Emilia

Il generale dei carabinieri Tomasone racconta in un libro i retroscena: dopo un incontro in un ristorante di Bologna col procuratore Alfonso partì il giro di vite che è culminato con le condanne di Aemilia

Vittorio Tomasone, generale dei Carabinieri ora in pensione

Vittorio Tomasone, generale dei Carabinieri ora in pensione

Reggio Emilia, 12 settembre 2022 - I tortellini, il lambrusco. C’è sempre la tavola e il mangiar bene dietro le storie emiliane. Ma questo la mafia calabrese non poteva saperlo. Messi da parte kalashnikov e tritolo fin dagli anni Ottanta, come in altre parti d’Italia, la ’ndrangheta in Emilia Romagna aveva indossato camicia e cravatta. Gli affari hanno necessità di immagine anche quando la tradizione affonda nei riti antichi della mala nata e cresciuta nei paesi chiusi come mondi a parte della Calabria profonda. L’inchiesta Aemilia, il maxi processo alla ’ndrangheta cutrese del boss con due cognomi come i nobili, Nicolino Grande Aracri, nacque una sera a tavola nel 2010 in un incontro discreto a metà fra l’amicizia e la professione di un procuratore capo di lungo corso e un generale dei carabinieri col piglio da attore e la calma dei nervi distesi dell’investigatore da romanzo. Vediamoci al ristorante Teresina stasera, a due passi dalle Due torri, centro di Bologna dove (Lucio Dalla dixit) non si perde neanche un bambino. E così, prima delle riunioni con altri magistrati e carabinieri, il procuratore capo di Bologna, Roberto Alfonso, e il comandante regionale dell’Arma, Vittorio Tomasone si incontrarono. Cominciò da una chiacchierata informale sottovoce, l’inchiestona sulle cosche emiliane con base a Brescello di Reggio. Sappiamo come è finita: la procura distrettuale antimafia di Bologna ha portato a processo 220 persone, facendo condannare buona parte di loro a 123 anni di carcere in primo grado, con l’aggiunta di altri 302 anni (passati in giudicato) per i 58 imputati che hanno scelto il rito abbreviato. Le successive riunioni, la lunga fase operativa con un Nucleo speciale di 30 carabinieri creato per la partita emiliana contro la ’ndrangheta e altri retroscena sempre rimasti dietro le quinte sono svelati dal generale Vittorio Tomasone (ora felice nonno in pensione) in un capitolo del libro Racconti corsari - un giornalista e un carabiniere ricordano (Rogiosi editore) scritto con Nino Petrone, giornalista salernitano che ha lavorato al Mattino, Corriere della sera, Messaggero. Entrambi raccontano storie della rispettive carriere svelando particolari che la cronaca del momento non era riuscita a cogliere.

Così nel capitolo La ’ndrangheta in Emilia, Tomasone svela che la maxi indagine partì perché il procuratore Alfonso "non aveva fatto mistero di ritenersi non completamente soddisfatto dello sforzo investigativo e giudiziario nei confronti della criminalità organizzata in Emilia Romagna...". Alfonso fu chiaro: generale serve uno sforzo corale. Parlarono a lungo e si "confessarono" l’ufficiale e il magistrato e convennero che bisognava ripartire con "una maggiore concretezza delle attività investigative a partire dalla valutazione attenta delle segnalazioni di reato, delle eventuali denunce presentate...". Segno che gli sforzi fatti fino ad allora, per quanto importanti, erano troppo slegati fra di loro. Tomasone racconta che il giorno dopo riunì i 9 comandanti provinciali dell’Arma, chiese conto delle indagini sulla mala organizzata, volle un resoconto delle interdittive antimafia dei prefetti. Una scossa elettrica. Furono settimane di raccolta documentale a cui fece seguito il casting di 30 carabinieri esperti con l’individuazione del capo di questo nucleo, il capitano Andrea Leo, che comandava la compagnia di Fiorenzuola, territorio già interessato a fenomeni di ‘ndrangheta. Leo ebbe carta bianca e si dedicò all’inchiestona suddividendo il team in piccole squadre che agirono con l’aiuto dei carabinieri dei comandi territoriali. "Scoprimmo - scrive il generale - una vera struttura criminale che aveva incorporato anche imprenditori locali, prima inconsapevoli e poi, per convenienza o intimidazione ma comunque conniventi....". Nelle pieghe dell’indagine vennero ricuciti e riletti vecchi episodi necessari per capire il radicamento delle ’ndrine in Emilia e la lotta di potere che affondò il clan Dragone sostituto dai boss emergenti di Nicolino Grande Aracri. Il rewind delle indagini parte dall’uccisione del boss Giuseppe Ruggiero (1992) falciato a Brescello da finti carabinieri in divisa, per risalire alla bomba del bar Pendolino sempre a Reggio Emilia (1998) e al chilo di pentrite che fece la festa bombarola all’Agenzia delle Entrate di Sassuolo (2006). Seguì il botto finale del colpo di bazooka che sventrò un’auto blindata e tolse di mezzo il vecchio capo cosca Antonio Dragone. Il pm Marco Mescolini, coordinò le indagini, e tenne insieme il lavoro delle procure interessate. Una parte dell’amarcord investigativo del generale è dedicato all’ allora prefetto di Reggio Emilia, Antonella De Miro, la quale racconta in prima persona il lavoro fatto con decine di interdittive antimafia e la tensione per le intimidazioni subite. E dalla sua testimonianza emerge anche la storia di un’altra cena stavolta a Reggio Emilia: "Fu consumata il 21 marzo 2012, nel ristorante che poi si scoprì frequentato dai boss.....una cena affollata, una sessantina di persone fra avvocati, giornalisti, consiglieri comunali di opposte appartenenze politiche, ma legati dalle stesse origini cutresi o ad esse vicine. Poi imprenditori dell’autotrasporto, dell’edilizia di origini calabresi.... una cena organizzata per discutere della crisi economica della provin cia e soprattutto delle interdittive che stavano fermando l’operatività delle imprese in odore di mafia...". Ma i tortellini del procuratore e del generale ebbero la meglio.