Isolamento e autolesionismo: sempre più casi "I ragazzi usano i social per ’sembrare’ felici"

L’educatrice di una cooperativa: "Arrivano e mi dicono: ’sono un hikikomori anche io’". La psicologa: "Richieste d’aiuto raddoppiate in 2 anni"

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"Sono un hikikomori anche io, questo mi dicono i ragazzi dai 12 ai 18 anni che seguiamo nel nostro centro".

Le parole di Federica Bigi (foto in alto), un’educatrice del Cps società cooperativa sociale, non lasciano spazio ad altre interpretazioni. Lo spettro della pandemia ha gettato un’ombra sulla salute mentale di bambini e adolescenti, compromettendo i delicati equilibri durante uno dei momenti più importanti del loro sviluppo fisico e psicologico. "Le richieste dall’inizio della pandemia sono raddoppiate – spiega Gabriela Gildoni (foto a destra), direttore di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza Ausl – Quando i sistemi educativi di scuola e famiglia collassano, come in questo caso, i ragazzi non riescono ad andare avanti senza un sistema di ancoraggio che gli dia sicurezza. L’ultima spiaggia è rivolgersi a una struttura medica dove un personale qualificato è in grado di rispondere alle loro domande e ai loro dubbi, cercando di rassicurarli".

Quindi, ricapitolando, se la pandemia porta dentro le case paura e incertezza, soprattutto economica, e se gli altri sistemi fondamentali per l’educazione e la socialità dei più giovani vengono meno, ci si trova di fronte ragazzi spaesati. "Così – riporta Gildoni – abbiamo intensificato il servizio di supporto nei nostri Open G in 6 distretti della provincia (Reggio, Montecchio, Castelnovo, Scandiano, Correggio e Guastalla). In questi punti d’accesso i ragazzi dai 14 ai 28 anni trovano ascolto gratuitamente. E noi, in base alla richiesta, decidiamo come intervenire perché i bisogni sono variegati". Anche Federica Bigi rivela una situazione alquanto allarmante: "In questi due anni, – spiega l’educatrice – soprattutto nella seconda fase della pandemia, abbiamo ricevuto innumerevoli segnalazioni sia da assistenti sociali sia privati. Anni fa il problema maggiore era legato alle sostanze stupefacenti, adesso o si isolano o si feriscono. Tra gli adolescenti di cui ci occupiamo la causa è l’ansia sociale. Ma maschi e femmine assumono due atteggiamenti diversi. I primi, non più abituati a socializzare, cercano di proteggersi, evitando il confronto: restano a casa da scuola, non fanno più sport e rinunciano alle uscite tra amici. Mentre le ragazze, diversamente dai maschi, hanno la tendenza a sfogare questo malessere psichico dal punto di vista fisico. Bersagliano il loro corpo, accanendosi sul fattore estetico che pare non le soddisfi e si infliggono delle ferite. Il malessere fisico a tutte loro sembra più facile da gestire e meno doloroso da sopportare rispetto al dolore psicologico. Le distrae da un male profondo".

Comportamenti molto diversi, ma la diagnosi di fondo resta la stessa per Bigi: "I ragazzi si sentono soli e apatici, non hanno stimoli. Gli unici stimoli che ricevono dall’esterno non li trovano gratificanti, anzi peggiorano il loro stato di salute".

E’ proprio Bigi a collocare al secondo posto, subito dopo la pandemia, l’utilizzo dei social come seconda causa dell’isolamento giovanile. Paradossalmente, lo strumento che durante la pandemia ci ha permesso di restare sintonizzati e collegati al mondo esterno, torna a dividere. Si creano le fazioni dei più fortunati e dei meno fortunati con una vita poco interessante. "Gli adolescenti – spiega Bigi – trovano una sorta di discrepanza tra la loro realtà e quello che vedono su internet e nonostante capiscano la finzione dietro a certi atteggiamenti si sentono frustrati. Alcuni mi dicono ’ho l’ansia che arrivi il fine settimana perché non so mai cosa fare di interessante e mi sento come se tutte le volte dovessi pubblicare qualcosa per far vedere agli altri che sto bene e mi diverto’". Anche Gildoni esprime il suo punto di vista a riguardo, dicendo che "la tecnologia, se ben usata, può agevolare i contatti a distanza, ma si tratta di un’arma a doppio taglio, talvolta evita la fatica relazionale di dover parlare con qualcuno dal vivo. Bisognerebbe educare i ragazzi non solo all’utilizzo di questo strumento, ma anche a come affrontare la realtà e la paura dell’incontro con l’altro".

Rosaria Napodano