Barca contro gli scogli. "Sono volato via, poi un angelo mi ha salvato"

Parla Carlo Calvelli, superstite del disastro del ‘Dipiù’

Carlo Calvelli

Carlo Calvelli

Rimini, 21 aprile 2017 - «Un disastro, è stato un disastro». Scuote la testa nella sua stanza d’ospedale Carlo Calvelli, otorinolaringoiatria 68enne, già docente all’Università scaligera, in pensione da quattro anni. E’ ricoverato da martedì agli ‘Infermi’. Prima al reparto Rianimazione, poi in Medicina d’urgenza.

Come sta?

«Un po’ meglio, grazie – sorride evidenziando le tante escoriazioni sul viso, un braccio immobilizzato per il trauma riportato –. Avevo chiesto di essere dimesso, ma mi hanno detto che ci sono valori ancora fuori posto».

Che cosa ha provocato il naufragio del Bavaria 50 ‘Dipiù’?

«Si è spento il motore proprio a ridosso dell’imboccatura del porto di Rimini».

A che distanza eravate?

«Una settantina di metri».

Che andatura avevate?

«Perfettamente di poppa piena rispetto alle onde. Venivano da dietro».

Quanto erano alte?

«Come questa stanza... sui tre metri, con un po’ di cresta».

Intensità del vento?

«Tra i 28 e i 31 nodi (sui 60 km orari, ndr). Non 40».

Dalla partenza dal porto di Ravenna il meteo è peggiorato?

«Un po’, ma la situazione era gestibilissima. Non era la prima volta che navigavo in condizioni simili. Martinelli aveva fatto un giro del mondo. E alla partenza la barca era perfetta».

Lei era al timone?

«In quel momento sì, me lo avevano affidato a circa 600-700 metri dall’imboccatura. Ci davamo il cambio».

Chi aveva il ruolo di skipper?

«L’armatore era anche lo skipper, il mio amico del cuore...» (il cardiochirurgo veronese Alessandro Fabbri, una delle quattro vittime della tragedia, ndr).

Cos’è successo entrando?

«C’è stata una ingavonatura, la barca si è inclinata, poi raddrizzata. Ma il motore si è spento».

Avete tentato di riavviarlo ovviamente...

«Sì, ci hanno provato gli altri. Senza riuscirci. Zero. La sfortuna è che si è spento così vicino al molo. Fosse successo prima, avremmo avuto tempo di alzare una vela. O proseguire verso Ancona. Fosse successo un minuto dopo, saremmo già stati dentro».

Avevate a riva un po’ di tela?

«No, navigavamo a motore. Non avremmo avuto tempo di ammainarla entrando con quel vento».

Chiglia, timone e albero li avete persi dopo l’urto?

«Sì. La barca era a posto. Ho visto l’albero inclinarsi mentre ero in acqua. Ci ha tradito il motore».

Lei era già entrato a Rimini?

«No, era la prima volta».

Distanza dal ‘pennello’ scogliera a quel punto?

«Eravamo a dieci metri. Un’altra sbandata ci ha portato verso sinistra, e in un attimo siamo finiti sulla scogliera. E’ stato come essere su una macchina in corsa in discesa senza i freni. Io sono volato in mare, dietro, ho visto per un attimo i miei amici sulla barca».

A quel punto?

«Qualcuno ha tirato i dadi... Doveva salvarsi la ragazza, che era giovane...»

Dopo l’urto lei dov’è finito?

«Contro gli scogli, mi sono incastrato in una roccia, un buco. Con l’onda andavo sott’acqua, la testa mi sbatteva sui sassi. Per fortuna erano abbastanza piatti. Il problema non era tenere il fiato, ma non battere. Arrivava di tutto in quel buco, pezzi di barca, parabordi. E’ durata 45 minuti».

Un inferno. Riusciva a pensare?

«Cercavo di ragionare. Ero incastrato. E con un braccio lussato facevo poco. Ma avevo promesso a mia moglie che sarei tornato».

Ha pensato fosse finita?

«Sì. Ma ho combattuto. L’ho vista davvero dura. Sono andato in ipotermia, a 32 gradi».

Poi sono arrivati i sub calati dall’elicottero.

«Ho fatto un gesto con la mano, gli angeli del cielo sono scesi. Mi hanno liberato, lo stivale è rimasto tra le rocce, si è staccato».

Vedeva gli altri velisti mentre era incastrato?

«Da lì sotto non li vedevo, non li sentivo.Ho saputo dopo».

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