Il pasticcio sui fucili dei Savi. La carta segreta

Rimini comunicò nel 1991 che uno dei Savi aveva un’arma uguale a quella usata al Pilastro

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Il possibile legame (poi accertato in sede giudiziaria) fra i fratelli Savi e l’eccidio al Pilastro, poteva essere provato già nel 1991. A rivelarlo sono documenti inediti per l’opinione pubblica – scoperti dallo scrittore Massimiliano Mazzanti –, tra loro contrastanti e che non possono che amplificare i misteri che, a 30 anni di distanza, avvolgono l’orrore della Uno Bianca. E’ il 4 gennaio 1991, le 22 scoccate da poco, quartiere Pilastro: l’auto dell’Arma, con a bordo Andrea Moneta, Mauro Mitilini e Otello Stefanini, è di pattuglia tra i palazzoni del quartiere. Davanti trova una Uno Bianca, è l’inferno di fuoco. Andrea, Mauro e Otello, 64 anni in tre, restano sull’asfalto, trucidati. La mano è quella della banda della Uno Bianca che sta mietendo terrore in Emilia Romagna e Marche da giugno ’87. Si cercano le armi, innanzitutto due fucili: il Sig Manurhin e il Beretta AR-70. Nella nostra regione ce ne sono alcune decine, tutte regolarmente denunciate e uno dei detentori si chiama Fabio Savi, fratello dei poliziotti Roberto e Alberto. A confermarlo è una nota del vicequestore di Rimini, Oreste Capocasa, datata 2 febbraio 1991, in risposta a una richiesta che gli arriva dalla Criminalpol: “Si comunica – scrive il dirigente – che dagli accertamenti esperiti, è emerso che presso l’armeria Savini di Rimini, nel periodo 1988-1991, sono state vendute una carabina semiautomatica Sig. Manuhrin cal. 222R”, venduta “il 18 gennaio 1989 a Fabio Savi, nato il 22 aprile 1960 e residente a Villa Verucchio”.