Costretti a ridare tempo al tempo

Non è una scelta, è una strada obbligata. La pandemia ha portato alla ribalta una dimensione di tempo rimossa dalle vecchie generazioni e quasi sconosciuta alle giovani, quella dell’attesa. Il tempo destinato ad attendere uno dei tanti possibili nuovi sviluppi cui la pandemia espone le nostre vite in questi due anni è aumentato a dismisura. Tralasciando i casi più gravi in cui il tempo è sofferenza, se non addirittura anticamera della fine, nella migliore delle ipotesi bisogna aspettare giorni o settimane per prendere consapevolezza dei sintomi, conoscere la diagnosi della malattia o, semplicemente, la negativizzazione. E, uscendo dal pianeta covid, sono costretti ad attendere mesi, anni i malati di altre patologie che debbono essere operati, monitorati o semplicemente sottoposti a terapie che consentano loro di convivere con la malattia. Nella vita di tanti esseri umani di paesi e continenti lontani e diversi il tempo ha assunto nuove dimensioni e valenze, un ritorno al passato che investe anche chi non è colpito dall’infezione, il cui tempo è tuttavia sempre in qualche modo segnato dall’attesa a cominciare dalle sistematiche code nei negozi. Siamo ben lontani dalla cultura imperante sino a qualche tempo fa, ridurre ad ogni costo i tempi di attesa: l’attesa si è ripresa i suoi spazi, partendo dalla fisiologia. Certo alcune attese sono conseguenza di una organizzazione sottoposta a pressioni di ogni genere. Resta da chiedersi se e come, al di là dell’usura psichica cui siamo tutti inesorabilmente sottoposti, questo “nuovo” tempo possa essere utilmente impiegato. Giuseppe Barbanti, Venezia