Cesena, 21 agosto 2017 - La crisi più dura degli ultimi venti anni, in una progressione drammatica oltre la quale s’intravvede la pietra tombale su una produzione che è stata il nucleo centrale di un’economia che ha dato identità e benessere alla nostra zona. Parliamo di pesche, e la famosa Bella di Cesena (celebrata anche dallo scultore Lucchi nella rotonda tra via Ravennate e via Calcinaro), in gran spolvero nelle nostre campagne fino agli anni Sessanta, ne dice qualcosa dei tempi d’oro. In questo scorcio di estate bollente - di quelle in cui i coltivatori cesenati gioivano poiché al caldo si accompagnava un’impennata del consumo di frutta - le pesche (più che altro oggi si producono nettarine, ossia pesche senza pelo, più gradite al mercato) vengono pagate ai produttori da 10 a 20 centesimi al kg. Ma il costo di produzione si aggira sui 50 centesimi. Come dire che si produce in netta perdita.
Perché dunque continuare a produrre pesche? Se lo sono chiesti già da tempo i produttori della nostra zona, tant’è che un’indagine di Confagricoltura sottolinea come dal 1994 ad oggi in Emilia-Romagna la superficie coltivata a pesche è crollata da 20.988 a 6.106 ettari e quella delle nettarine da 17.728 a 8.563. E si tratta per la gran parte di peschicoltura romagnola.
Perché sono in crisi le pesche romagnole? I consumi si stanno orientando verso altre tipologie di frutta più agili al consumo (le albicocche hanno sostituito in parte, nelle nostre colline, le pesche precoci) e la produzione si è spostata al sud Italia e in Spagna dove la coltura ha trovato migliori condizioni produttive, che significano clima più secco e costi di produzione più bassi. Anche senza arrivare ad abbattere tutti i peschi per orientarsi verso altre attività, com’è successo ad un’azienda di Martorano che ha preferito ‘coltivare’ progetti di energia rinnovabile, sono tante le aziende che hanno abbattuto i pescheti.
Un caso emblematico è quello di uno dei più grandi produttori cesenati, Marcello Filippi, settanta ettari sotto al sole tra Pioppa e Calisese. «Tra il 2010 e il 2014 ho abbattuto tutti i miei pescheti, ossia trenta ettari, non c’era più alcuna possibilità di trarne guadagno, la peschicoltura in Romagna non è più remunerativa», dice Filippi con una punta di rammarico ma con la concretezza di un imprenditore agricolo che non si è lasciato travolgere dal cambio di passo della nostra agricoltura. «Oggi - afferma - ho convertito l’azienda in coltivazioni estensive. Produco ortaggi per i surgelati dell’Orogel e piante da seme per la Cac, ho investito in macchine, mezzi tecnici e sistemi di produzione diversi che mi consentono una buona redditività con un basso impiego di manodopera. Ho conservato soltanto un ettaro e mezzo di albicocche, che ancora registrano un andamento discreto, e una di kiwi. Ma con le pesche, negli ultimi anni, abbiamo lavorato in perdita, e questo benché la frutta cesenate abbia caratteristiche di qualità e pezzatura eccellenti». Ci saranno ancora pescheti, in futuro, in terra di Romagna? «Ci saranno - è la risposta di Filippi -, ma molto ridimensionati. Succederà quello che si è verificato con le fragole, poche produzione, anche se di qualità, in vendita diretta. Fino a quando si sta tutti sul mercato, oltretutto in competizione con un prodotto che viene anche dall’estero, facendosi concorrenza al ribasso e offrendo alle grandi catene della distribuzione pesche a costo zero, per i produttori agricoli italiani non ci sarà futuro».