Il tramonto di un modello

di Luigi Luminati

Pesaro, 14 luglio 2014 - Cosa resterà di questi 15 anni di nuovo millennio? Poco, forse la consapevolezza che il modello marchigiano tanto sbandierato aveva i piedi d’argilla. La cessione dell’Indesit chiude il cerchio di una crisi che è stata devastante nelle Marche, soprattutto in quei territori che avevano ottenuto la loro ricchezza - e, perché no?, anche un po’ di supremazia morale - sui grandi distretti manufatturieri.

La crisi dell’industria, della produzione, della trasformazione dei beni che rischia di spazzare via l’Italia come grande paese industriale mondiale, si vede meglio da queste parti. Nel deserto crescente delle aree industriali mobiliere pesaresi; nell’arretramento ormai totale della meccanica nel fabrianese. Nella chiusura di aziende, nella cessione di marchi storici, nella totale incapacità di una classe dirigente di trovare risposte reali e concrete alle difficoltà di sistema.

Nemmeno la bandierina dell’export, spesso sventolata anche con un minimo di ragione da Alberto Drudi, presidente della Camera di Commercio, regge più. La sconfitta appare generale, complice anche il fatto che la ricchezza delle seconde-terze generazioni fa a pugni con la capacità di creare delle prime. Così come l’irrilevanza strategica della regione appare evidente nel pasticcio Banca Marche, trattata peggio di Siena e Genova.

Lo scenario è talmente negativo che fanno sorridere le performance verbali dei presidenti Renzi e Spacca. Così come fa sorridere il gran movimentismo Pd per la conquista del ruolo di governatore. Come se fosse ancora importante dividersi sul terzo mandato o sulle primarie. E non ci fosse bisogno di altro: di una mobilitazione generale per la creazione di lavoro; per il sostegno a chi vuole intraprendere davvero; per chi ha - come aziende già esistenti - un minimo di possibilità di sopravvivere. Ma tutto questo presuppone non solo una politica coraggiosa e vera, ma anche uno scenario sociale diverso.

Per fare un esempio quando Montedison e Benelli cominciarono negli anni ’60-’70 a vivere la loro grande crisi... qualcosa accadde. E non furono De Tomaso e la Gepi, bensì la gemmazione di tante piccole e medie imprese meccaniche che ancor oggi (Biesse in testa) reggono l’urto. Ci fu un grande trasferimento di saperi, ma anche la capacità della società di non cullarsi sulla ricchezza conquistata con il boom economico e degli istituti di credito di aiutare chi voleva investire davvero.

Sarà ancora possibile ripetere tutto questo? Nelle Marche appare più difficile che da altre parti. Una società sazia di ricchezza e disperata di valori vede le sue aziende in vendita e le sue banche commissariate da Bankitalia o acquistate da altri. E forse essere terra di conquista non è nemmeno il peggiore dei mali. Sempre che torni fuori quella capacità di invenzione e quella voglia di lavorare tipica dei marchigiani. Meno aperitivi e più fatti.