Ravenna Festival, lo spettacolo itinerante dell'inferno dantesco

Ottanta spettatori a sera fino al 3 luglio per questo spettacolo a metà tra rappresentazione medioevale e teatro rivoluzionario

Alcuni momenti della rappresentazione del Teatro delle Albe per Ravenna Festival

Alcuni momenti della rappresentazione del Teatro delle Albe per Ravenna Festival

Ravenna, 22 giugno 2017 - L’inferno, quello che ciascuno di noi cova nel proprio inconscio, è nascosto lì, nell’ex chiesa monastica di Santa Chiara trasformata, in un gioco di ribaltamenti, in una sala teatrale intitolata a Luigi Rasi già nella seconda metà dell’Ottocento.

E di capovolgimenti, cambi di prospettive e sovvertimenti la gente che in queste sere ha la fortuna di entrarci ne conosce parecchi: urla di soldati, versi straziati, strepiti di giovani erinni, figure sinistre, comandi sguaiati, scontri fisici. Uno spazio, quello del Rasi, completamente stravolto in un gioco di specchi, scale, luoghi segreti, apparizioni, sonorità, bui che diventano lampi accecanti.

Benvenuti nella città dolente, benvenuti nei gironi contemporanei del nostro scontento, benvenuti nella grande macchineria scenica immaginata dal Teatro delle Albe per raccontare la prima cantica della Divina Commedia. Fino al 3 luglio proseguono ogni sera alle 20 le repliche dello spettacolo-monstre (nato su commissione di Ravenna Festival) ideato, diretto e interpretato da Marco Martinelli e Ermanna Montanari che rappresenta la prima tappa di un ampio progetto che porterà le Albe ad allestire Purgatorio nel 2019 e Paradiso nel 2021. Per gli 80 spettatori a sera ammessi allo spettacolo è questa un’occasione preziosa per capire cosa si intende per ciò che comunemente si definisce teatro partecipato: sono oltre 600 i cittadini che, suddivisi in undici cori, si raccolgono ogni sera (le repliche saranno 34 così come i canti dell’Inferno) attorno agli attori della compagnia per dare vita a un kolossal popolare che sta a metà fra la sacra rappresentazione medioevale e il teatro rivoluzionario di massa di Majakovskij.

Ci si trova dunque verso le 8 di sera nella stretta stradina che conduce alla tomba di Dante: pubblico e cittadini dicitori sono pronti ad ascoltare e dire le terzine del primo canto, guidati da un Virgilio che si è sdoppiato in due dicitori vestiti di bianco, Martinelli e la Montanari appunto. Eppoi il piccolo corteo si incammina per le strade di Ravenna guidato dal suono di una tromba e accompagnato dai versi del secondo canto mentre le ombre del tramonto si fanno più lunghe: c’è tempo per una sosta davanti a Sant’Apollinare Nuovo per ascoltare la voce di una Beatrice bambina e subito si arriva all’ingresso del Rasi, sulla cui facciata campeggia la fatidica scritta ‘Per me si va’. Comincia così il viaggio nei gironi del peccato di un pubblico che diventa novello Dante. Perché, come dice Ezra Pound, è l’intera umanità a compiere il viaggio salvifico dalla selva oscura alla visione celeste. Lo spettacolo mischia Boccaccio a Simone Weil (Caronte grida un pezzo di Venezia salva), De Sade a Pasolini. Non è citazionismo gratuito perché quegli inferi senza uscita ricordano troppo da vicino il nostro orrore quotidiano.

Ci sono momenti di struggente bellezza (il ballo tempestoso e innocente dei contemporanei Paolo e Francesca) e altri meno efficaci (i furiosi legati dalle camice di forza) ma nel complesso lo spettacolo è potente, coraggioso, necessario. E soprattutto rispecchia la filosofia che le Albe hanno sempre seguito nel loro testardo lavoro di aggregazione e di denuncia.

Alla fine si esce davvero a riveder le stelle: in un cortile una scala celeste appoggiata ad un albero secolare indica l’ascesa a un punto infinito e invisibile. Sì, abbiamo bisogno che il viaggio continui ancora.