Aemilia, "In Emilia Romagna una ’Ndrangheta moderna e mimetizzata"

Ecco la prima storica sentenza della mafia a Reggio Emilia: 1.390 pagine di motivazioni degli abbreviati dell’indagine Aemilia

Una foto scattata dagli inquirenti durante un pedinamento che ritrae il boss Nicolino Grande Aracri e uno dei suoi uomini più fidati Antonio Gualtieri

Una foto scattata dagli inquirenti durante un pedinamento che ritrae il boss Nicolino Grande Aracri e uno dei suoi uomini più fidati Antonio Gualtieri

Reggio Emilia, 12 ottobre 2016 – Una ’Ndrangheta 'moderna' e 'mimetizzata'. Sono questi due aggettivi con cui il Gup Francesca Zavaglia ha descritto la presenza della criminalità organizzata calabrese in Emilia-Romagna, nelle motivazioni della sentenza del processo in abbreviato di Aemilia.

Il tratto peculiare emerso dal processo è «la fisionomia di una struttura criminale moderna, che affianca le caratteristiche della classica tradizione ‘ndranghetistica calabrese a modalità operative agili e funzionali a penetrare nel profondo della realtà socioeconomica emiliana».

Con una «dimensione prettamente affaristica nell’agire del sodalizio emiliano finalizzata, da un canto, al reimpiego dei flussi di denaro provenienti dalla cosca calabrese e dall’altro alla produzione di ricchezza locale tramite condotte predatorie, vieppiù agevolate dalla grave congiuntura economica del periodo, così da assecondare un processo di espansione, di vera e propria conquista, fortemente inquinante e soffocante il vitale tessuto locale».

Presupposto dell’azione, per il giudice è la disponibilità di imprese, non solo schermo di attività illecita, ma realmente operanti, «confondendosi lavori legittimi con condotte illecite, altre volte i lavori legittimi involvendo, a fronte di ostacoli, in azioni illegali. Casi, questi ultimi, nei quali la ‘mimetizzatà ‘ndrangheta emiliana mostra la sua essenza». «La facilità di azione, l’agevole reperimento di anelli deboli attratti dai guadagni, dalle lusinghe nonché talvolta dal ‘fascinò del potere malavitoso e l’ingente quantità di ricchezza illecitamente prodotta e distribuita sono fattori che hanno contribuito a distendere le tensioni che sempre accompagnano le lotte di potere e a sbiadire il volto violento (pur in passato esistito anche in Emilia) dell’associazione ndranghetistica qui tratteggiata».

«Nell’indagine Aemilia si assiste alla rottura degli argini» da parte della criminalità calabrese in Emilia dove «la congrega è vista entrare in contatto con il ceto artigianale e imprenditoriale reggiano, secondo una strategia di infiltrazione che muove spesso dall’attività di recupero di crediti inesigibili per arrivare a vere e proprie attività predatorie di complessi produttivi fino a cercare punti di contatto e di rappresentanza mediatico-istituzionale», si continua a leggere nelle 1390 pagine della sentenza del processo concluso ad aprile con 58 condanne in abbreviato, 17 patteggiamenti, 12 assoluzioni e un proscioglimento per prescrizione. Dato caratterizzante è proprio «la fuoriuscita dai confini di una microsocietà calabrese insediata in Emilia, all’interno della quale si giocava quasi del tutto la partita, sia quanto agli oppressori che alle vittime».

Inoltre il sisma del maggio del 2012 fu occasione di infiltrazione per l’associazione ‘ndranghetistica emiliana, che per i propri affari approfittò di imprenditori compiacenti e inquinò settori economici come edilizia e autotrasporto. «Lo sfruttamento da parte della criminalità organizzata delle calamità naturali è fatto purtroppo notorio in questo Paese», scrive il giudice Zavaglia osservando che l’organizzazione malavitosa trae «vantaggio dalla legislazione emergenziale, dall’attenuazione dei controlli e dallo stesso indebolimento psicologico e economico della società civile colpita».

Anche l’associazione ‘ndranghetistica emiliana «ha puntualmente mostrato questo tratto distintivo giovandosi, come determinante punto di forza, della compiacenza di imprenditori emiliani che nella ‘Ndrangheta vedono un’opportunità per la realizzazione del massimo profitto». Amaro è il commento nella sentenza all’intercettazione in cui due imputati, Gaetano Blasco e Antonio Valerio, ridono dopo le prime scosse: la conversazione consente di affermare che «la ‘Ndrangheta non si prende neanche il tempo dello sgomento», scrive il Gup.