"Ho il cancro ma nessun diritto"

Alla barista 36 enne di Ficarolo non è stata riconosciuta l’invalidità di Sandro Partesani

La barista Giorgia Calza

La barista Giorgia Calza

Rovigo, 14 luglio 2014 - «Una lavoratrice autonoma non ha nessun diritto, solo doveri, io questa cosa proprio non riesco ad accettarla». Giorgia Calza ha 36 anni, è sposata e mamma di Fabio, quasi 10 anni e abita a Ficarolo. La sua storia è purtroppo molto simile a quella di tante donne e oltre alle problematiche legate alla malattia che ha dovuto affrontare, la beffa di scoprire che a livello istituzionale nessun sostegno è previsto per una donna che durante il periodo immediatamente successivo all’intervento e per i lunghi mesi di terapia ha dovuto far fronte con mezzi propri alla gestione dell’esercizio commerciale di proprietà: «Da 16 anni gestisco un bar di famiglia, ho rilevato la gestione dalla mamma, morta otto anni fa a causa di un cancro al seno e da qualche tempo mi avvalgo dell’aiuto di Lisa e Marika, due dipendenti. Nel giugno 2013, durante un controllo di routine che effettuavo regolarmente considerata la causa della morte di mia madre, mi viene diagnosticato un nodulo al seno. Inizio la trafila, l’ago aspirato e dopo qualche settimana l’intervento. Ad agosto ho iniziato il mio calvario, otto cicli di chemioterapia, quattro di epirubicina, ciclofosfamide e quattro di taxolo. Subito dopo l’intervento ho continuato a lavorare anche se saltuariamente perché non ero in splendida forma. Appena iniziata la chemio sono caduta a terra come una pera. La terapia era pesantissima, ogni 21 giorni una seduta, per i primi 15 giorni dopo la somministrazione ero letteralmente al tappeto. Letto e poltrona, poltrona e letto, non riuscivo nemmeno a parlare. Poi mi riprendevo un pochino ma certamente non riuscivo a lavorare».

Quindi? «Un’amica mi ha consigliato di inoltrare domanda per ottenere un assegno ordinario di invalidità. Mi convocano per la visita, tra il primo e il secondo ciclo di chemio, avevo già perso completamente i capelli e mi reggevo in piedi per miracolo. Dopo qualche settimana ricevo una raccomandata che mi dice, cito testualmente, ‘che non sono risultate infermità tali da determinare una permanente riduzione a meno di un terzo della capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle attitudini personali’. Il risultato quasi inutile affermarlo: «Mi è crollato un’altra volta il mondo addosso. Pensavo di vivere in un mondo parallelo. La chemioterapia è riconosciuta come terapia invalidante e se fossi stata dipendente avrei avuto diritto alla mutua. Perché io non ho lo stesso diritto ad ammalarmi di un dipendente? A questo punto decido di fare ricorso, seguita dal medico legale e nel frattempo proseguo le mie terapie, riduco gli orari di apertura del mio esercizio pubblico proprio perché io non riuscivo a lavorare e mi faccio aiutare economicamente dalla mia famiglia. Il gennaio scorso presento il ricorso, ritorno negli uffici competenti accompagnata dal medico legale, mi visita un altro medico e dopo la visita mi riferiscono che il mio ricorso non è stato accolto perché il quadro non raggiunge la soglia invalidante secondo i requisiti di legge. E’ una vergogna».

E adesso? «Mi viene data la possibilità di produrre un ricorso all’Autorità Giudiziaria. E lo farò. Io ho concluso le terapie a marzo, ora sto facendo l’ormonale per i prossimi cinque anni, lavoro bene nonostante qualche piccola noia ma per questo periodo non pretendo niente. Lo esigo per i 10 mesi di chemioterapia, è un mio diritto».

Sandro Partesani