Tutele ai boomers e giovani precari. Cresce il divario tra generazioni

Posto fisso e pensioni generose per chi è nato tra gli anni ’50 e ’60. Solo briciole per i Millennials e i ventenni

Il divario generazionale

Il divario generazionale

Da un lato i baby boomers nati a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, in pieno miracolo economico. Dall’altro, i figli degli anni Ottanta, ma, soprattutto, i Millennials e i loro fratelli minori della Generazione X. Da un lato, il lavoro con l’articolo 18 e il tempo indeterminato, le pensioni calcolate con il generoso sistema retributivo, addirittura le baby pensioni dopo 19 anni, sei mesi e un giorno, gli ammortizzatori a go go e la Pubblica amministrazione grande "mamma" dei mille concorsi e delle centinaia di migliaia di assunzioni.

Dall’altro, i co.co.co, le finte partite Iva, gli stage , i part-time obbligatori, l’occupazione sottopagata, il blocco del turn over nel pubblico impiego e, in prospettiva, le pensioni da fame a età impossibili, le reti di protezione sempre più chiuse e meno "coprenti".

Il braccio di ferro di queste ore, dentro e fuori il governo, su Quote e altri meccanismi di uscita anticipata non fa che riproporre plasticamente il grande conflitto generazionale che da almeno venti anni domina le politiche economiche e del lavoro in Italia (e non solo). E, ancora una volta, il criterio di selezione degli interventi in cantiere, come anche la spinta alla mobilitazione di sindacati e partiti, finisce per risentire in maniera pressante e pervasiva delle ragioni dei "garantiti" e dei "tutelati" a danno di quelle delle nuove generazioni.

Il risultato complessivo del ventennio? È presto detto. L’Italia non è solo il Paese dei Neet o della elevata disoccupazione giovanile intorno al 30% (inferiore solo a Grecia e Spagna). Siamo un Paese che spende per le pensioni oltre 50 volte di più rispetto a quanto spende per l’istruzione universitaria, con solo l’11,7% degli studenti beneficiario di una borsa di studio. Un Paese che destina alla formazione cosiddetta "terziaria" lo 0,3% del Pil, la percentuale più bassa in ambito Ue, contro il 15-16% impiegato per il pagamento dei trattamenti previdenziali.

Un Paese che si ritrova ai primi posti dell’Unione europea per numero di assegni pensionistici erogati e agli ultimi per numero di studenti universitari: addirittura penultimi per laureati, appena prima della Romania.

Il risultato, insomma, è quello di un Paese con la natalità in caduta libera, con una gioventù che deve accontentarsi, quando va bene, di un lavoro a termine fino ai trent’anni e passa, salvo decidere di fuggire all’estero: "In meno di 10 anni - accusa il Ministro dell’Economia, Daniele Franco – quasi mezzo milione di ragazzi e ragazze se ne sono andati. Si tratta di una perdita enorme di capitale umano, visto che l’Italia non attrae in uguale misura giovani con elevata competenza. I giovani emigrano perché cresciamo poco e cresciamo poco perché non valorizziamo i giovani".

E, d’altra parte, non è per caso che i dipendenti under 35 guadagnano in media 4mila euro in meno l’anno rispetto agli standard dei colleghi di altre fasce anagrafiche. Come non lo è il raddoppio in dieci anni dell’indice di povertà assoluta degli under 35. E, però, i loro padri e nonni si ritrovano titolari di pensioni di tutto rispetto o a lavoro con diritti acquisiti e, al massimo, con la prospettiva di dover restare al lavoro qualche anno in più sopra i sessant’anni.

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La pandemia stessa, a sua volta, non ha fatto altro che amplificare i trend in corso da qualche decennio. Tant’è che sono stati proprio i giovani tra i 15 e i 34 anni le principali vittime sociali dell’emergenza Coronavirus, diventando la generazione della doppia recessione globale: quella degli old millennials , travolti prima dalla grande crisi del 2008-2014 e colpiti in pieno, insieme ai loro "fratelli minori", dalla depressione del virus. E così c’è chi ha visto scadere e non rinnovare il contratto a termine o chi lavorava a partita Iva e non ha visto più un euro di compenso per il venire meno dei committenti. Mentre i padri e i fratelli maggiori sono stati protetti dallo scudo del blocco dei licenziamenti e dalla cassa integrazione erogata a piene mani.

Ora, però, che è partita la ripresa e che si generano risorse da poter redistribuire, siamo a un nuovo giro della giostra di sempre, con chi sale (i più anziani) e chi resta a terra (i giovani). E allora non c’è da stupirsi se Carlo Calenda spariglia: "Se i sindacati organizzeranno una mobilitazione per le pensioni noi promuoveremo una mobilitazione per i giovani. A loro tocca pagare sempre il conto".