La mamma di Alice Gruppioni: "Il vero ergastolo è nostro, soffriremo per sempre"

Il dolore di Barbara, che ha perso la figlia nella tragedia di Venice Beach FOTO La tragedia di Venice Beach

Alice Gruppioni e Christian Casadei

Alice Gruppioni e Christian Casadei

Bologna, 27 settembre 2015 - Nessuna soddisfazione. Solo la nitida consapevolezza che, adesso che il processo è finito e il colpevole condannato, bisognerà continuare a vivere, anzi a sopravvivere, senza di lei. Senza Alice (FOTO). Tutti i familiari di Alice Gruppioni, da papà Valerio a mamma Barbara fino al marito Christian Casadei, sanno perfettamente che la vera condanna è la loro, non quella di Nathan Campbell. E lo ripetono in coro, all’infinito. Per loro è così. E non c’è molto altro da dire. La pena di 42 anni di carcere, estendibili fino all’ergastolo, è congrua. Per la famiglia Gruppioni è stata fatta giustizia. Ma il dolore sordo e implacabile non diminuisce nemmeno un po’ per questo. La vita si è fermata a quel maledetto 3 agosto di due anni fa.

«La vera sentenza a vita – si sfoga mamma Barbara –, il vero ergastolo, l’abbiamo avuto io, mio marito, Christian e Naike e Carlotta (le sorelle di Alice; ndr). Fin dal principio di questa storia le uniche persone che hanno veramente pagato sono anche le uniche innocenti. E sono pure le uniche che pagheranno per sempre, senza aver mai fatto del male a nessuno. Per questo non vediamo perché il vero responsabile dovrebbe pagare di meno».

Per i Gruppioni Nathan Campbell deve restare dietro le sbarre per sempre. Loro confidano che la condanna sarà all’ergastolo. In realtà, secondo la giustizia americana Campbell potrebbe, in teoria, uscire fra 42 anni, quando ne avrebbe 81. Ma non è affatto scontato che ciò accada, perché dipenderà da vari fattori. «Noi confidiamo che sconti l’ergastolo – dice la zia Katia, che nell’ultima udienza ha mandato il video che ha tanto commosso la giuria –. Abbiamo chiesto il massimo della pena per il loro ordinamento e questo è il massimo in relazione al reato contestato. Quindi loro hanno fatto il massimo».

«Vogliamo ringraziare pubblicamente il procuratore distrettuale Victor Avila e – aggiunge Katia Gruppioni – la polizia di Los Angeles. Quanto a Campbell, ha mandato un lettera per chiedere clemenza, in cui però parlava di un incidente e non ammetteva le sue colpe. Il giudice è stato bravissimo, perché ha detto che non ci si può pentire e chiedere perdono se non si ammettono le proprie colpe. Anche per noi è così».

«Ci sentiamo vuoti: senza quei sogni e quelle speranze che facevano da pilastro alla nostra vita – dice amaramente Christian, il marito di Alice – Abbiamo sempre saputo che la giustizia, anche se fatta, non lenisce il dolore personale di ognuno di noi». Christian Casadei cerca di guardare avanti con la sua professione di architetto, ma ogni giorni, ogni notte il pensiero corre ad Alice e a come sarebbe potuta essere la loto vita. «La mia condanna è per sempre», ripete anche lui, come un mantra.

Ora, concluso il primo grado del processo penale, l’attenzione si sposta su quello civile, sulla causa intentata dai Gruppioni contro il Comune di Los Angeles, colpevole di non aver messo in atto misure di sicurezza adeguate ad impedire una simile tragedia. A metà ottobre ci sarà l’udienza preliminare in cui si saprà se e quando inizierà il vero e proprio processo. Intanto le parti in causa stanno raccogliendo le prove. La battaglia sta per cominciare.

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