ANDREA BONZI
Cronaca

Suviana, il cantore dell’Appennino: "Territorio dimenticato. La diga è la nostra storia"

Lo scrittore Vanoli: la gente qui non ha mai percepito quel bacino come un pericolo "Il problema più urgente è accendere un faro sulla montagna che si sta spopolando".

Il cantore dell’Appennino: "Territorio dimenticato. La diga è la nostra storia"

Il cantore dell’Appennino: "Territorio dimenticato. La diga è la nostra storia"

Storico e scrittore, Alessandro Vanoli si sente pienamente "un cittadino di quelle vallate" in Appennino, tra Emilia e Toscana, poco distanti da dove è avvenuto il disastro della centrale di Bargi. Si tratta del più grave incidente sul lavoro avvenuto in territorio bolognese, e di uno dei più significativi dell’Emilia-Romagna, ma è anche un grande sfregio per un territorio che, dall’esterno, ha scorci quasi idilliaci. Ma Vanoli – autore di Pietre d’Appennino. A piedi su strade che raccontano la Storia (edizioni Ponte alle grazie) – affronta un ragionamento più complesso.

Professor Vanoli, che cosa la lega a quei luoghi e al bacino di Suviana?

"Nella zona di Castiglione de Pepoli c’è una casa della famiglia di mia moglie. È una bellissima area e ci vado spesso, conosco il sindaco Maurizio Fabbri e mi sento pienamente un cittadino di quelle vallate. Quindi questa tragedia, al di là del numero delle vittime che la rende sicuramente un disastro di dimensioni nazionali, mi colpisce anche in quanto conoscitore di quel territorio".

Tra i cittadini di quell’area, la diga di Suviana, realizzata negli anni Trenta, e la centrale di Bargi, costruita negli anni Settanta, sono mai state percepite come un potenziale pericolo, anche solo da chi vi lavorava?

"Onestamente direi di no, semmai negli anni passati il bacino ha attratto turisti, oltre ad assumere importanza per gli aspetti di carattere energetico. Però c’è un aspetto che vorrei sottolineare".

Di che aspetto si tratta?

"Quello che mi colpisce è che il bacino è artificiale, non naturale, simbolo di come l’uomo incida il proprio territorio, lo crei, lo plasmi. E, nel trasformarlo, finisca per trasformare se stesso, accumulando lì ricordi ed esperienze, vivendolo anche solo per il periodo turistico. Per cui quella che, a tutti gli effetti e anche per uno storico come me, è una tragedia molto più ampia, finisce per toccare nel profondo anche a livello personale".

Al di là delle eventuali responsabilità da accertare, siamo di fronte all’ennesima strage sul lavoro. Uno stillicidio che, in Italia, non sembra avere fine.

"È una considerazione che esula dal mio ruolo. Certamente i casi moltiplicati di giorno in giorno e il tema cela problemi sociali, economici e politici. Però, ecco, non vedo un legame specifico con questo territorio appenninico, che pure ha altri problemi".

Ecco, quali sono queste criticità secondo lei?

"Innanzitutto fa abbastanza rabbia che le condizioni di questo territorio emergano solo a seguito di questi eventi. Intendiamoci: l’incidente della centrale di Bargi ha un carattere tecnico che nulla ha a che vedere con il contesto appenninico, però diventa la drammatica occasione per sollevare il tema di territori montani comunque dimenticati. Zone che, invece, andrebbero curate di più anche sul versante sociale, economico e politico".

Lei pensa che lo scoppio della centrale possa incidere sulle presenze turistiche in quella parte di montagna?

"Francamente non so se questo dramma possa modificare i flussi turistici. Torno a sottolineare che il problema più urgente è accendere un faro sulla zona di crinale appenninica, una vera spina dorsale italiana, che si è spopolata e che il nostro Paese ha dimenticato completamente. Si tratta di luoghi reali che, spero, continuino ad essere frequentati, non solo nei periodi di villeggiatura. Per far questo, però, servono investimenti e azioni politiche che aumentino la mobilità e la facilità d’accesso ai servizi, rendendoli luoghi in cui davvero vale la pena vivere".

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