BEATRICE BUSCAROLI
Cronaca

Un Concetto Pozzati ’fuori scala’

La mostra ’XXL’ a Palazzo Fava fino all’11 febbraio sulle molteplici ’maturità’ del maestro bolognese

Un Concetto Pozzati ’fuori scala’

Allestire una mostra su Concetto Pozzati è un’operazione complessa, ma necessaria e doverosa. Perché Pozzati è stato una delle figure centrali non solo nell’intricata vicenda artistica bolognese, ma nella riflessione sulle arti visive che dalla metà degli anni Sessanta hanno consumato l’attività degli storici e dei critici dell’arte. E Maura Pozzati, figlia di Concetto (collier con la pera disegnata dal padre e orecchini opera della madre), giustamente fa esplodere la rassegna – promossa da Genus Bononiae e Archivio Pozzati a Palazzo Fava fino all’11 febbraio –, attraverso i cicli fuori scala, XXL, delle molteplici ’maturità’ del maestro bolognese, vale a dire dal lento e inesorabile abbandono dalle seduzioni informali ("Vengo dall’informale, – ricordava – poi ho tentato di modificare macchie e corrosioni, muri e stratificazioni in fantasmi organici"). Molteplici ’maturità’ perché i disagi della forma, specie a Bologna, sono sempre carichi di tensione e, per essere placati, richiedono recuperi (la formazione di Pozzati nello studio parigino dello zio Severo, Sepo, è un indizio importante), così come il confronto, assiduo, partecipato con quanto nel nostro paese viene alla luce: l’irruenza del gesto di Emilio Vedova, il segno ironico di Valerio Adami, la variante ’pop’ di Giosetta Fioroni. Ma non va dimenticata la passione con la quale Pozzati interpreta il magistero di insegnante all’Accademia di Belle Arti (Firenze, Venezia, Urbino, Bologna). Sintomo della qualità del suo insegnamento risiede nel fatto che nessuno dei suoi ’allievi’ gli somiglia.

Questo detto, i ’grandi formati’ (accolti tra il piano nobile e la sala di Giasone), raccolti in serie, veri e propri paradigmi d’investigazione che accompagnano l’autore in un progetto inesausto: quello – come annota nel 1974 – di "riappropriarsi di quello che già possedevamo ma che, forse, non… conoscevamo". E forse qui sta il centro della sua investigazione: le ’cose’, che riconosciamo, di cui individuiamo la somiglianza con la realtà, ma che comunque non sono nostre, non sono assimilabili nella nostra coscienza. Le ’cose’ sono sfuggevoli, incerte, ambigue. Come ha scritto nel 1988 Roberto Sanesi in riferimento ai fiori: "Il lavoro di Pozzati è stato quasi sempre un lavoro critico. Questi fiori sono figure il cui spazio e la cui sostanza significante sono pittura. Il piacere ’mortale’, e, perché no? ’artificiale’ della pittura: che è a sua volta apparizione di sostanza che si va facendo". La pittura è un’azione impervia, che non redime, che mostra senza dimostrare la nostra difficoltà a dire il mondo, come Alberto Boatto nel 2008 sembra riassumere il senso del ciclo Ciao Roberta: "Nello smarrimento, l’uomo si sente dolorosamente pieno di vuoto. Si scopre a prestare attenzione, al di là dei vetri della finestra, a un dettaglio insignificante della strada oppure a fissare una pagina fitta di segni scuri che non legge".

Dalle pere quasi ’pop’ degli anni Sessanta, alle serrature dischiuse (?) da improbabili chiavi, dal dizionario delle idee ricevute degli anni Settanta, alle cornici cieche del nuovo millennio, sembra in fondo valere l’idea espressa da Giorgio Morandi: "Non c’è nulla di più astratto del visibile".

Esercizio della pittura come confronto con la complessità dell’universo visibile, dunque, ma anche riflessione, scrittura – sempre presente in Pozzati, quasi a certificare un diario intimo ininterrotto – sull’"abitare la pittura".

"Sono i quadri che ti guardano e che hanno gli occhi... – annota l’artista nel 2009 –. Sono loro che si confrontano, si scelgono o si isolano individuando il perché di quell’occhio sempre spalancato. Qualcuno sul mio lavoro ha parlato di istinto, di rapina, di pensiero, di esperienza, di ragione, di ’critico dell’arte’, che non vuol dire critico d’arte, ma critico del sistema e del proprio lavoro. Esiste sempre un perché che il pittore sa, ma cerca il suo doppio per capire il suo contrario, il proprio nascosto". Quasi a commento, Maura riflette: "Ecco allora che quell’abitare la pittura apre a una ulteriore possibilità, quella di viverla ancora, frequentarla e continuare a praticarla. Concetto si è sempre domandato cosa fare dopo la pittura e ha versato fiumi d’inchiostro sul senso dell’arte e della sua impossibilità".