"Ho trasformato il mio veleno in medicina"

Cristina, ex alcolista, racconta la sua storia di sofferenza e redenzione: "Ho capito che la responsabilità è solo mia"

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di Elide Giordani

"Sì, ci metto la faccia. Ho bevuto di nascosto ma ora voglio condividere con tutti la mia sobrietà". Ecco come ti spiazza Cristina Belli, un passato da alcolista (da tre anni è libera dalla schiavitù del bicchiere), e una forza che oggi si traduce in generosità verso chi, avvinto alla bottiglia, se la sta passando brutta. Cinquantasette anni, due figli, due nipoti, operatrice socio-sanitaria presso l’ospedale di San Piero in Bagno ma anche testimonial per Acat (Associazione dei club algologici territoriali), Cristina vuole che si parli di lei come di una persona felice che ha saputo trasformare "il veleno in medicina" e ora quel medicamento lo mette a disposizione di chi cede all’ebbrezza per non soccombere al male di vivere.

Cristina, che valore ha per gli aderenti all’Acat non nascondersi dietro all’anonimato?

"Nel mio caso è la ricerca di un riscatto, anche nei confronti della mia famiglia, far capire loro che ho saputo trasformare un problema in una crescita e ora aiuto chi come me ha vissuto questa sofferenza".

Domanda inevitabile, come è iniziato il suo rapporto con l’alcool?

"Potrei dire ai tempi in cui giocavamo alla guerra e ci rifugiavamo nel capannotto di Giulio da cui, in certi periodi, usciva un odore strano ma invitante anche per noi bambini. Bastava infilare la gomma nella damigiana e succhiare. Lo facevano anche i grandi … Due o tre boccate e via a nascondersi. Non mi è mai piaciuto il vino ma quella sensazione di leggerezza si è incisa nella mia memoria".

Da lì alla dipendenza, però… "Nulla capita per caso. Bevevo di nascosto tutto quello che trovavo per superare una profonda mancanza di autostima. Non mi piacevo e soffrivo di bulimia nervosa, l’alcol mi aiutava a contenere il bisogno di mangiare e vomitare. All’epoca mi bastava poco, poi a 23 anni, quando avevo già il mio primo figlio, la mattina mi tremavano le mani per il bisogno di bere".

I suoi familiari non se ne accorgevano?

"No, stavo accorta, non era come oggi in cui i giovani bevono pubblicamente senza subire alcuna riprovazione sociale. Gliene ho fatto una colpa, ma oggi ho capito che la responsabilità è stata solo mia per non essere riuscita a chiedere aiuto prima, benché nei 30 anni di alcolismo e di bulimia ho tentato tante strade, compresa quella degli alcolisti anonimi".

Non si è mai rassegnata.

"Mi sono resa conto subito del problema della dipendenza, ma occorreva anche accettare con umiltà la situazione, che è il primo passo verso la liberazione". Cosa le è costata in termini di rinunce la dipendenza dall’alcol?

"Mi è costata la dignità, la libertà, la gioia di vivere. E per riconquistarle bisogna lavorare molto".

I suoi figli come l’hanno vissuta?

"Non bene, ovviamente, ma ho cercato di renderli partecipi della mia battaglia. Giorgia, che è il mio gioiello, mi ha scritto una lettera meravigliosa in cui mi confessa di avermi odiato ma che di amarmi perché le ho insegnato che nella vita ogni problema custodisce una soluzione". E ora?

"M ubriaco di speranza, di gioia, di coraggio, di forza, di determinazione. Mi ubriaco d’amore per me stessa e per gli altri, mi inebrio sniffando l’odore dei miei amati gatti e cani, il profumo delle foglie bagnate e l’aroma del caffe".